Storytelling, ossia il modo (e i mezzi) con cui si sceglie di raccontare una storia anziché un’altra. È praticamente la “fucina” del giornalismo, dove ogni cosa è pesata alla giusta misura per poter coinvolgere appieno il pubblico a cui ci si rivolge. Un qualcosa che il quotidiano torinese La Stampa conosce bene, operante da tempo con diversi canali che vanno dal classico cartaceo al digitale, passando per Twitter e la web tv. Tanto da essere il protagonista lo scorso venerdì 2 maggio alla Sala dei Notari, a Perugia, durante il Festival Internazionale del Giornalismo. Sul palco, per parlare del caso Ruanda che quest’anno compie 20 anni dallo scoppio delle barbarie consumatesi, c’era anche il direttore Mario Calabresi. Grande conoscitore del giornalismo, non solo italiano, si è concesso ai nostri “microfoni” al termine dell’evento.
Il mondo di oggi si racconta veramente in 140 caratteri, come vorrebbero in tanti?
(Sorride, ndr) No, non si racconta. In 140 caratteri si dà un’impressione, in 140 caratteri si può dare un titolo, in 140 caratteri si può rimandare a un link in cui si racconta una cosa.
La Stampa oggi è sia sul cartaceo che sul web. Qual è il futuro? Possono convivere entrambi i mezzi?
Io parlo per la testata che dirigo io, ma comunque… La Stampa, o qualunque altro giornale, dovrà essere un sistema informativo dove si produce informazione di qualità che poi viene divulgata in mille modi diversi. E quindi non è carta contro digitale anzi, domani, ma già oggi, il luogo più forte è il digitale e poi ci sono tante altre aree, tra cui anche la carta.
Che scenario si aspetta alle imminenti elezioni europee?
Una crescita forte in Europa dei populismi, perché noi iniziamo a vedere uno dei segni di ripresa ma, visto che questi non hanno nessun influsso reale né sull’occupazione né sui consumi, i populismi, gli euroscettici, le rabbie che sono la Le Penn in Francia e in parte intercettati da Grillo in Italia, saranno ancora in crescita.
C’è qualcosa del giornalismo che non le piace oggi?
Sì: non mi piacciono le semplificazioni, i titoli eccessivamente gridati, gli slogan tipo quando si dice “il branco”, “il super testimone”, tutti questi modi di parlare e raccontare, e non mi piace il giornalismo che va per ondate emotive.
Da direttore qual è il suo più grande rimorso? Per qualcosa che ha omesso, voluto aggiungere…
(Ci pensa e sorride, ndr) Forse è il non avere avuto abbastanza coraggio di cambiare in questi anni, perché secondo me bisogna fare ancora di più uno spostamento di risorse di energie dal tradizionale al digitale e tagliare maggiormente cose che si fanno in automatismo, per invece mettere più soldi su cose che vale di più la pena fare.
Lei conosce bene gli Stati Uniti. Tra giornalismo italiano e americano c’è una vera differenza abissale?
No, non c’è una vera differenza abissale perché il giornalismo americano ha avuto anche tante falle dall’11 settembre in poi. Quello che c’è di più é che i giornalisti americani si sono messi maggiormente in discussione, hanno cercato di reinventarsi di più e hanno comunque uno scrupolo informativo, nella media, maggiore di quello che abbiamo noi.
timothy dissegna