Canada: quando l’omertà uccide l’ambiente

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Il catrame invade tutto. Giace sul fondo dell’acqua, riempie i polmoni dei pesci, lo si respira nell’aria ogni giorno. Ma nessuno dice nulla, nessuno vuole farlo. Con quella melma putrida mangiano tutti, e anche bene. Soprattutto in Canada, terra di alci, aceri e petrolio. Già, perché l’oro nero ha invaso anche il “fratellastro” mezzo francese degli Stati Uniti, una vera e propria miniera a cielo aperto che ha cambiato la vita dei cittadini canadesi. In tutti i sensi.

Andiamo con ordine. La storia della scoperta del petrolio in Canada é ormai vecchia, l’incredibile novità risale infatti ai primi anni del 2000 e già precedentemente gli “addetti ai lavori” conoscevano la capacità di quella terra di estrarre il famoso liquido nero. Ma i costi dell’operazione erano troppo elevati e le grandi compagnie petrolifere preferivano lavorare in Paesi come Arabia Saudita, Venezuela e altri famosi per la ricchezza dei propri sottosuoli, dove l’estrazione costa appena 2-3 dollari al barile rispetto agli 8-13 nel nord America (come riportava il Corriere della Sera il 15 agosto 2005). Il motivo di questo dispendioso divario sta nel fatto che nei “paradisi” di sceicchi e magnati il greggio lo si ricava trivellando il sottosuolo, mentre in Canada la procedura é più complessa e lunga.

Ma, a partire dagli anni ’90, le cose sono cambiate. Si é capito, infatti, che Cina e altre potenze emergenti avrebbero continuato a mantenere alta la domanda, e di conseguenza il costo, del prezioso liquame. Ciò ha permesso alle compagnie di utilizzare metodi di estrazione meno redditizi per aumentare la produzione, e qui entra in gioco il Canada.

Vuoi poi che gli USA, in quello stesso periodo, stavano cercando sempre più fonti vicino a casa loro per non dipendere dal Medio Oriente; vuoi che il governo di Ottawa aveva bisogno di creare nuovi posti di lavoro ed ecco che lo Stato di Alberta, famoso per le sue sabbie bituminose, si é ritrovato in mano un’occasione a dir poco d’oro. E proprio grazie a quella sua attrattiva naturale così unica al mondo, vera fonte di miliardi di dollari. Tutti, ovviamente, sporchi di catrame.

Il petrolio canadese non è “tradizionale” come quello che si trova nei giacimenti di mezzo mondo, ma lo si ricava con una lavorazione molto complessa rispetto al semplice infilare un palo sottoterra e scoprire che zampilla liquido nero. E per far ciò serve acqua, tanta, quantità pressoché industriali. L’Alberta sicuramente non ne ha carenze, poiché come il resto del Paese è provvista di numerosi corsi d’acqua e laghi, ma che fine fa questa dopo che è stata utilizzata? Viene rilasciata dove precedentemente era stata presa, trascinando con sé gigantesche quantità di catrame che devastano l’eco-sistema. Lo rivela Giornalettismo il 27 marzo 2012, raccontando delle pozze fetide e fiumi morti che ancora oggi continuano a essere un gravissimo problema per una delle nazioni-simbolo del rispetto della natura in tutto il mondo. Le foto, poi, che L’Europeo pubblicò nell’ottobre 2011, lasciano ben poco all’immaginazione. Spiagge invase da enormi colate di materia fetida, il fiume Athabasca (che passa vicino a dove si estrae il petrolio) contaminato dalle sabbie bituminose e le cui acque finiscono nei rubinetti delle case dell’Alberta sono solo alcuni dei crimini ripresi dagli obiettivi dei fotografi. Ma ci sono anche le foreste pressoché devastate dalle piogge acide, causate dall’altissima quantità di CO2 che gli impianti producono quotidianamente, e il cielo grigio di nuvole sporche che fanno da “sfondo” a questa regione che fino a poco tempo fa aveva nel proprio lago interno preistorico, oggi un immenso deserto di sabbia bituminosa, soltanto una suggestiva meta turistica e niente di più.

Poi sono arrivati i colossi petroliferi mondiali come Exxon-Mobil, Chevron, Shell e ConocoPhillips che si sono divisi questa “miniera” con le aziende “autoctone” che da anni lavorano in Alberta. Un nome fra tutti: la Suncor Energy. E non è roba da poco.

Secondo quanto riportava ancora Giornalettismo alla fine del luglio scorso, infatti, questa società avrebbe finanziato integralmente uno studio del 2012 con il quale il governo aveva dichiarato che non esistevanocasi d’inquinamento e le leggi sulla protezione ambientale avevano funzionato benissimo. Non è difficile trovare il conflitto d’interessi in questa cosa, poiché a pensar male, ossia che la Suncor avesse qualche interesse da tutelare, alla fine spesso si scopre che si ha ragione. E così hanno fatto due giornalisti canadesi, Kevin Timoney e Peter Lee, che si sono imbattuti quasi per caso in strani volumi alla Alberta Environment’s Data Library di Edmonton. Questi contenevano denunce di violazioni alla natura che non erano mai state pubblicate e, quando i due hanno tentato di consultarli, gli hanno risposto che erano off-limits. Alla fine, dopo un lavoro definito “epico” dal giornale Calgar Herald, Timoney e Lee hanno potuto elaborare un rapporto di 667 pagine, contenente una lista di oltre 9000 infrazioni dal 1996 ad oggi. Il tutto è costato 220.000 dollari, solo in parte coperti da finanziamenti esterni. Ma almeno sono stati soldi spesi bene, sradicando la maschera di omertà che fino ad allora aveva celato agli occhi della politica locale questa tragedia, tacendo sulla distruzione dell’eco-sistema in favore di un indice positivo per l’economia.

Cosa che ora il Canada possiede sicuramente, dopo che con l’eccezionale scoperta è diventata la seconda potenza petrolifera la mondo, dietro soltanto all’Arabia Saudita, con riserve per circa 170 miliardi di barili di greggio. Ciò significa che il Paese della foglia d’acero può guardare dall’alto in basso Stati come Venezuela e Iran, da decenni ai vertici di quella “classifica”, e a beneficiarne sono sicuramente i cittadini di Fort McMurray, avamposto sperduto nella tundra ed epicentro delle attività di estrazione delle compagnie petrolifere. I suoi 55mila abitanti, infatti, hanno trovato una vera fonte di ricchezza in quella sabbia, venendo assoldati dalle multinazionali per far funzionare i macchinari. 20 dollari l’ora e orari da 12 ore per 20 giorni al mese hanno attirato l’attenzione di tantissimi lavoratori, che hanno raggiunto questa cittadina in mezzo al nulla diventata improvvisamente una nuova El Dorado.

Ovviamente il grande exploit del Canada non ha lasciato tutti felici e le critiche non sono tardate ad arrivare. Prima di tutto dal Green Party, fortemente contrario da sempre agli impianti e ancora di più al Keystone XL, uno degli oleodotti più lunghi del Nord America. Scriveva L’Europeo sempre nell’ottobre 2011, infatti, che la sua costruzione costerà nel complesso 7 miliardi di dollari e collegherà “Fort McMoney”, come è stata ribattezzata la città, con le raffinerie del Golfo del Messico. Quasi 3000 chilometri che saranno completati entro la fine del 2015, riportava la CNN l’11 marzo di quest’anno.

A essere contro la lavorazione delle sabbie bituminose è anche la commissaria dell’Unione Europea per il cambiamento climatico, Connie Hedegaard, poiché il petrolio estratto in questo modo produce più inquinamento di quello preso normalmente.

Il Canada, comunque, continua per la sua strada senza frasi troppi cruci per l’opposizione che trova. Un forte alleato, invece, è gli Stati Uniti, ormai da anni alla ricerca di riserve petrolifere alternative al Medio Oriente. E per parlare anche di questo Obama si è incontrato con il re saudita Abdullah a Riad poche settimane fa, come riporta il sito MSN Finanza il 30 marzo. Il Presidente democratico, infatti, sarebbe andato a ritrattare gli accordi riguardanti le forniture di combustibile che da decenni il regime wahabita fornisce al Paese a stelle e strisce. Ma ora, grazie anche alle abbondanti riserve canadesi, questo può diminuirne la richiesta e il re arabo non ne è sicuramente entusiasta, come scrive ancora il sito italiano. Un’ancora di salvezza potrebbe rivelarsi la Cina, dal 2009 al 2013 ha aumentato del 28% la propria richiesta di greggio all’Arabia.

Contenti tutti, quindi. O quasi. Perché, come riportava pochi giorni fa Repubblica.it, il Quebec era tornato alla carica con l’ennesima richiesta di un referendum sulla propria indipendenza. E la minaccia sarebbe anche potuta andare in porto se alle ultime elezioni della regione, svoltesi domenica scorsa, il Parti Québécois, secessionista, avesse vinto. Ma alla fine hanno avuto la meglio i liberali, anche se non è da dire definitivamente tramontata l’idea di fondo. E se succedesse una cosa simile, per l’economia canadese sarebbe un vero dramma. La parte del Paese più francofona, infatti, possiede lo Stato di Alberta, apice del boom petrolifero tanto amato in patria.

Mentre la diatriba infiamma il Canada ancora una volta, intere foreste e laghi continuano a venir distrutti dalla fame di oro che ha invaso i pensieri di tutti laggiù. Probabilmente sarebbe la natura a voler chiedere un referendum. Per separarsi dall’uomo.

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