Tutto è iniziato così, dalla parola. Dio stesso, lo si legge nella Bibbia, era verbo e da lui è nato tutto. Poi sono arrivati i sumeri, babilonesi, il codice di Hammurabi, egiziani e mille altre forme di scrittura, fino ai giorni nostri e alle lettere che usiamo quotidianamente.
In un percorso lineare della storia, sembra che, da un certo punto, l’umanità intera (un popolo prima, poi l’altro) abbia inventato la scrittura, abbandonando le antiche forme orali di trasmissione del sapere. Catalogandole addirittura come primitive, superstiziose, irrazionali.
Siamo, quindi, più evoluti noi occidentali, che utilizziamo simboli per comunicare, rispetto a certi popoli dell’Africa, ancora oggi ancorati a tradizioni orali? Di quest’idea non è lo studioso Jack Rankine Goody, il quale ha dedicato una vita intera a evidenziare le differenze e le loro cause tra “orale” e “scritto”.
Nell’analisi di questo lungo lavoro, l’antropologa Ruth Finnegan ha posto l’accento sul fatto che Goody <<ha attaccato con costanza l’assunto secondo il quale le società non alfabetizzate sono omogenee e credule>> (R. Finnegan, in G. Iacchetti, V. Matera, “La lingua come cultura”, Utet università, 2008).
In questa approfondita analisi, emergono chiaramente delle parole chiave che ben delineano un quadro della situazione. Innanzitutto la “dualità”, tra le due forme di comunicazione; la “superstizione”, che da un lato è riferita alle tradizioni orali e dall’altro è l’atteggiamento dello “scritto” stesso verso la controparte; e, infine, la “memoria”: così schematica e via ottimale per apprendere conoscenze ma così duttile e mutevole quando viene tramandata a voce.
Il messaggio della Finnegan, sostenuto dalle tesi di Goody, non ha bisogno di tante interpretazioni. <<La radicale dicotomia – scrisse l’antropologo – che sta alla base (…) mi pare una reliquia del colonialismo accademico>>. Ossia imporre l’idea che la forma di comunicazione adottata da chi colonizzò l’Africa fosse più evoluta di quella già presente laggiù: è questo che Goody vuole smontare con il proprio studio, in particolare con il suo libro “The Domestication of the Savage Mind” (1977).
Di fronte a un giudizio simile, c’è da chiedersi cosa sia allora la letteratura, quale importanza possa avere in una società dove le storie passano di bocca in bocca, cambiando con il tempo. Ma se ci fermassimo a questo, si perderebbe il significato stesso per cui sono nate le storie: raccontarle con il calore della voce, facendole vivere fuori dalle pagine fredde di un libro. È un qualcosa che il nostro mondo sta perdendo sempre di più, perso nel grigiore di numeri e calcoli stampati e insensibili.
timothy dissegna