OSPEDALI PSICHIATRICO-GIUDIZIARI – il reportage di Daniele Campi Martucci

La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere.

(Franco Basaglia)

I padiglioni che accolgono i pazienti, disseminati variamente ed equamente distanziati, disposti lungo ampi viali alberati, danno la non attesa impressione di aggirarsi in mezzo ad un villaggio signorile, che toglie all’istituto tutto ciò che di repulsivo in genere si riceve dalla vista delle strutture di aspetto severo, spesso carcerario.
(Cosimo Schinaia)

La località sotto il punto di vista dell’igiene e di molte di quelle condizioni richieste dall’odierna tecnica manicomiale, per la costruzione di un istituto moderno, a forma di villaggio sparso, offre condizioni vantaggiose. Essa si trova a 160 metri di altezza sul livello del mare, esposta a pieno mezzogiorno, sufficientemente difesa dai venti, circondata e frastagliata da boschi, con vista sugli Appennini e sul mare.
(Cosimo Schinaia)

È una storia di vinti, di uomini, donne e fanciulli che non seppero reggere la pesantezza materiale e psichica dello sfruttamento e della miseria. Per loro lo sviluppo delle forze produttive e il progresso hanno solo voluto dire perdita sempre più evidente, non solo dei mezzi di produzione, ma anche delle proprie facoltà mentali, in una totale e continua perdita di sé. Imbecilli, gozzuti, cretini, pellagrosi, alcoolisti, dementi, isterici sono il fastidioso cascame umano del progresso, un grumo di degenerazione di cui allo psichiatra e al manicomio è delegato il compito di occuparsi apparentemente per curarlo e riabilitarlo alla convivenza civile in realtà per rimuoverlo e renderlo inoffensivo, socialmente inesistente.
(Alberto De Bernardi, Francesco De Peri e Luciano Panzeri, Tempo e catene: manicomio psichiatria e classi subalterne: il caso milanese, citato in: Cosimo Schinaia, Dal manicomio alla città: «l’altro presepe» di Cogoleto)

Al di là del cancello, irrimediabilmente chiuso, c’erano le palazzine della direzione e l’ispettorato, al cui interno erano ubicate la stanza dei medici, gli uffici amministrativi, la biblioteca, ed in parte gli appartamenti dei medici, che là dimoravano. Era la zona abitata e frequentata dalle persone, deputate all’assistenza e all’amministrazione, con la sua vicinanza all’uscita, con la possibilità di fuga all’esterno, un esterno che nei momenti critici potesse confermare l’identità di curante e quindi normale, in opposizione a quella di curato e quindi diverso. Con la sua lontananza dai padiglioni di degenza, luoghi della sadica segregazione, da cui i medici cercavano il più possibile di tenersi a distanza di sicurezza. Quindi cominciava l’ampio territorio in cui i vari padiglioni di degenza erano disseminati, tutti invariabilmente chiusi e non comunicanti l’uno con l’altro. Ognuno di essi era dotato delle camerette di isolamento per gli agitati o in ogni caso di coloro che arrecavano disturbo all’inumano ordine istituzionale, dell’anonimo e disadorno soggiorno, luogo di incomunicabilità invece che di socializzazione e della piazza, prolungamento all’esterno del soggiorno, spazio aperto rigorosamente recintato. Ognuno dei reparti aveva anche la stanza dell’elettroshock, intrisa di angoscia e mistero, generalmente contigua alla sala medica, spesso in posizione centrale all’interno del padiglione, una sorta di terrificante verità per tutti i degenti; le facce impaurite, le grida di dolore avrebbero avuto un valore di prevenzione e dissuasione contro ogni atto di disturbo all’ordine della struttura. Il reparto dei bambini e la vicina scuola erano separati dagli altri padiglioni per evitare il contatto con gli adulti e i rischi che i bambini potessero essere vittime di agitati aggressivi, ma presentavano le stesse caratteristiche di abbandono e di isolamento relazionale. Dopo il villaggio dei padiglioni cominciava l’estesa colonia agricola con i suoi campi coltivati, con gli olivi e gli alberi da frutta, la porcilaia, gli animali da cortile e gli allevamenti bovini. Qui vi erano anche la falegnameria, l’officina, la lavanderia, la sartoria, ed altri luoghi di lavoro. Il manicomio di Cogoleto si differenzia dalla maggioranza degli altri manicomi per non avere né una struttura falansteriale, costituita cioè da un corpo centrale da cui partono una serie di bracci a raggiera, né una struttura a cerchi concentrici, dove i reparti si dispongono come gironi infernali sempre più terribili man mano che ci si avvicina al centro. Il cancello e il posto dei medici da un lato, e l’esteso territorio della colonia agricola dall’altro, segnano i confini del villaggio a padiglioni disseminati, confini non così evidenti come nelle altre strutture, anzi spesso camuffati ed abbelliti da alte siepi, ma assolutamente invalicabili e al cui limitare trova spazio il cimitero, nettamente diviso in due sezioni, uno per i cittadini di Cogoleto e delle frazioni vicine a cui i ricoverati del manicomio non possono avere accesso, ed uno per i folli, mestamente egualitario, con anonime croci tutte uguali, segnate da un numero, che il tempo invariabilmente provvede prima di sbiadire e poi a far scomparire del tutto.
(Cosimo Schinaia)

Cambiano le etichette e le denominazioni da “manicomio” a “ospedale psichiatrico”, da “demente, maniaco, alienato, matto” a “infermo di mente”, ma il contenuto di follia, di miseria, di emarginazione ed abbandono rimane tragicamente lo stesso.
(Gilberto Di Petta)

Il superamento delle vecchie realtà manicomiali non deve verificarsi né attraverso interventi che hanno determinato in passato dimissioni definite selvagge, né attraverso trasformazioni che non cambiano nella sostanza la realtà istituzionale, né attraverso trasmigrazioni di massa in strutture per la cronicità (lungodegenze, pensionati, residenze sanitarie assistite) pubbliche o private che non garantiscono il diritto ad una corretta assistenza e i necessari interventi riabilitativi. Chiusura degli ex ospedali psichiatrici, quindi, che non determini nuovi abbandoni ed ulteriori emarginazioni degli attuali ricoverati sia all’interno di strutture manicomiali e di istituzioni per la cronicità, sia all’esterno. Par la popolazione ancora residente all’interno dell’ospedale è necessario elaborare progetti riabilitativi personalizzati che tengano conto della durata del ricovero, della storia personale, della storia della malattia, della disabilità attuale, delle possibilità concrete di recupero, delle risorse personali e familiari, nonché di servizi territoriali ed istituzionali. I progetti di non istituire e riabilitare debbono essere realizzati attraverso la stretta collaborazione e comune responsabilità tra l’unità operativa degli ex ospedali psichiatrici e quella operante nei servizi territoriali del dipartimento di salute mentale, preferibilmente mediante l’elaborazione di appositi protocolli operativi.
(Franco Basaglia)

Finché resterà un residuo manicomiale, seppure incistato e chiuso a nuovi ingressi, resterà aperta una piaga, che spontaneamente non avrà tendenza a chiudersi.
(Cosimo Schinaia)

Diventa possibile valorizzare in queste anime morte un patrimonio di umanità così ricco, denso di significati, inquietanti interrogativi, messaggi radicali indirizzati alle zone nodali dell’esperienza umana, da rappresentare una fonte di arricchimento e meditazione preziosa.
(Franco Basaglia)

Le citazioni di Basaglia sono tratte dal libro: Corpo, sguardo e silenzio, in Scritti, vol. 1, Torino: Einaudi (1981)
Le citazioni di Schinaia sono invece tratte da: Dal manicomio alla città – “L’altro presepe” di Cogoleto, Bari: Editori Laterza (1997)

Cosimo Schinaia è stato direttore del manicomio di Cogoleto per diversi anni. Il titolo del libro si riferisce ad un piccolo gioiello dimenticato da tutti, ossia l’enorme presepe realizzato dai degenti e dal personale sanitario nei bassifondi del padiglione 12, presepe destinato molto probabilmente alla distruzione non appena inizieranno i lavori di riqualificazione dell’area.

Un ringraziamento per tutto il materiale fotografico a Daniele Campi Martucci. In seguito è riportata la galleria completa delle fotografie. Altro materiale potete trovarlo:

http://www.scritturascomposta.it/gallery/abbandono/asylums/

http://www.flickr.com/photos/lordfly/sets/72157603791577007/

uteriori informazioni e materiale potete averlo contattando: Daniele Campi Martucci – www.scritturascomposta.it oppure direttamente la redazione di UAU magazine – uaumagazine@gmail.com

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