di Giacomo Galazzo
Credo che oggi opporsi al Ddl Calabrò non significhi solo combattere un provvedimento che si ritiene sbagliato, ma attenga al modo in cui intendiamo la politica e il nostro impegno civile.
I fatti, in breve: è stato approvato alla Camera e tornerà al Senato un testo che sottrae un determinato trattamento sanitario, quello di nutrizione e idratazione artificiale, da quelli che i cittadini hanno diritto di rifiutare. Nonostante la Cassazione abbia detto che, se la volontà del paziente in stato vegetativo è ricostruibile secondo rigorosi criteri, questo deve essere possibile. Questo diritto viene strappato arbitrariamente, poggiando su una lettura ideologica del diritto alla salute e sulla affermazione che la nutrizione e idratazione artificiale, che di per sé non cura alcuna patologia, non costituisce un trattamento medico, ma un mero intervento di assistenza, pertanto non rifiutabile. Le due tesi sono entrambe infondate: è pacifico che l’art. 32 della Costituzione consenta al cittadino di rifiutare un trattamento sanitario, anche se da questo deriva la morte. Su questo non c’è discussione, un trattamento sanitario può essere imposto all’individuo solo se dalla sua omissione deriva un pericolo per gli altri (es. un vaccino contro una malattia contagiosa). Inoltre, se anche può affermarsi che la nutrizione artificiale non ha valenza terapeutica perché non cura malattie, è evidente che l’art. 32 non parla di terapie ma di trattamenti sanitari, e cioè applicati dal medico per il tramite dell’arte medica. La stragrande maggioranza della letteratura scientifica inserisce la nutrizione artificiale nei trattamenti sanitari. Siamo quindi in presenza di un testo che afferma un ideologia in aperto contrasto con il diritto e con la scienza.
Opporvisi vuol dire affermare che compito della legge è di bilanciare diverse esigenze ed interessi, non di far vincere un’ ideologia sull’altra. La legge Calabrò vuole che l’idea di chi ritiene che un cittadino non possa rifiutare un trattamento sanitario se da questi deriva la sua morte prevalga su quella di chi pensa il contrario. Opporvisi vuol dire affermare che la nostra Italia deve essere la casa dove tutte le idee e le convinzioni possono convivere fra di loro, senza che nessuna debba prevaricare sulle altre. Vuol dire affermare che ogni cittadino può avere una sua propria ed esclusiva idea della vita e della dignità della stessa, che ognuno può decidere come ritiene dignitoso vivere e come non ritiene dignitoso vivere, e determinarsi di conseguenza.
Opporvisi vuol dire riaffermare la nostra lealtà alla Costituzione, che afferma chiaramente che i trattamenti sanitari si possono rifiutare. Vuol dire riaffermare che la Costituzione non è solo un generico “invito al legislatore”, che poi può fare come gli pare, ma è un testo normativo, che va rispettato nei suoi comandi.
Opporvisi vuol dire che affermare che la politica deve ritrovare il senso del limite. Questa legge è inaccettabile perché mette le mani non solo nelle idee, ma nel corpo delle persone: dice, infatti, che, se per disgrazia a qualcuno di noi succederà quello che è successo ad Eluana Englaro, il nostro corpo potrà essere tenuto in vita per lunghi anni senza che noi possiamo dire, ora per allora, che non ci va bene. Per chi come me pensa che in questo caso non sarebbe la vita, ma sarebbero la scienza e la tecnica a trionfare, questo è inaccettabile. Ci sono ambiti in cui lo Stato deve fare un passo indietro: ognuno deve poter dire al suo medico: “lasciami andare”, e su questa scelta lo Stato non ha alcun diritto di questionare. A questo fine ricordo che lo Stato non concede i diritti, ma li riconosce, all’art. 2 della Costituzione, e l’uso del verbo cambia tutto. “Riconoscere” vuol dire che i diritti inviolabili della persona vengono prima dello Stato stesso, che a questi lo Stato si inchina e che di conseguenza non li può comprimere: quello di cui parliamo è uno di quei diritti.
Io faccio parte di coloro che dicono che una legge ci vuole: casi di odissee giudiziarie come quella affrontata dalla famiglia Englaro non si devono ripetere. Ma che sia una legge scarna, di poche righe, che dica cosa si può fare e cosa non si può fare, e che lasci poi alla triangolazione genitori-famiglia-medico di decidere nel caso concreto. Una legge, insomma, che ci riconosca come i titolari della nostra vita. Quali, indiscutibilmente, siamo.