vi è una via a pavia. più simile ad una feritoia o ad una fessura. forse ad una ferita. una piaga. o solo una piega. della città. nascosta dietro la stazione.
la strada di questa via è umida. prende poca luce. o forse non troppa. all’inizio vi è un senso unico che da sempre vieta di entrarci direttamente. perché questa via è sempre da sempre controcorrente.
qui trovi un qualcosa che non appartiene a pavia. né a nessun luogo. qualcosa di unico.
per certi versi mi fa pensare alle colonne di milano. con un po’ di postindustrialismo abbandonato in più.
e meno apparenza. meno finzione. meno esse tagliate in tre.
qui non devi offrirti. prostituirti. attirare. vendere. qui devi perderti.
mi siedo per terra. sento che la moto è ancora calda. poggio il casco di fianco. quasi per farmi compagnia.
già… perché qui mi sembra di esser nel vuoto. da solo. non c’è nessuno per strada. nemmeno un rumore.
ma ai bordi di questo rettangolo lunghissimo e strettissimo migliaia di voci. sui muri. sui davanzali. addirittura sui vetri delle finestre e sugli stipiti. queste voci hanno colori. tratti. lunghezze d’onda. son segni. murales. graffiti. ma -non solo-.
alcuni sono così acidi che se li fissi per più di un istante la vista si sfoca. riesci davvero a perderti dentro. altri invece sono morbidi. sensibili. riescono a calmarti. e a farti apparire questa fabbrica abbandonata o questo cancello quasi -bello-.
forse è solo una questione di appropriatezza. alcuni andrebbero visti solo di notte. cattivi.
un ragazzino che stava passando per la strada con la sua tipa punta il dito verso uno quei segni incomprensibili. ne disegna la traccia. l’essenza. io lo guardo con quell’ingenuo e impersonale stupore con cui si osserva una stella o un lampione.
una volta qualcuno mi disse che questo murales lo aveva fatto un ragazzo de -la casa del giovane-. chi c’è stato sa di cosa parlo.
mi alzo. vado di fronte. è rabbioso. nei tratti. ma racchiude speranza. nei colori. e tanta…
allora appoggio la schiena. chiudo gli occhi. voglio sentirlo. rubarne i colori.
come un camaleonte…
(…)
li riapro. e penso che esistano scritture che contengano un senso di minaccia. un’esasperazione. un rumore. uno spasmo. parole incise. scavate. storpiate. che sono estranee all’estetica e si guadagnano in questo modo una strana preistorica bellezza.
poi guardo l’orologio. è tardi. mi stacco e accendo la moto. ora la testa è chiusa dentro il casco. le voci continuano ad entrare. allora vado via veloce. mi lascio questo luogo assordante alle spalle. giro l’angolo e torno in città. ora andrò un po’ in palestra. anche lì sulla parete vicino ai sacchi vi è una scritta che quando mi spoglio dei vestiti del quotidiano mi fa sentire nel vuoto.
ma questa è un’altra via. quella del coraggio..