È di pochi giorni fa la notizia che il Sudafrica non ha concesso il visto al Dalai Lama, che avrebbe dovuto prendere parte ai festeggiamenti per l’ottantesimo compleanno di Desmond Tutu, oltre che alla conferenza inaugurale di “Desmond Tutu per la pace” a Città del Capo. Nonostante il portavoce Wazala abbia parlato di “giornata più triste” per lo Stato africano e abbia affermato che fosse un episodio peggiore di quelli verificatisi durante il governo dell’apartheid (forse esagerando un po’), il leader spirituale tibetano si è visto costretto ad annullare il viaggio.
Sappiamo che la questione tibetana è spinosa e lo è principalmente per l’atteggiamento cinese al riguardo, ma come mai la Cina può fare il bello ed il cattivo tempo in Sudafrica? Il Dalai Lama è stato accolto nel Paese nel 1996, nel 1999 e nel 2004; poi, nel 2009 la svolta ed il primo rifiuto. Se guardiamo con un po’ più di attenzione vediamo che nel 2007, la Icbc (la maggiore banca commerciale cinese) ha acquistato ben il 20% di Standard Bank e che dal 2002 al 2010 il tasso di crescita di commercio tra Cina e Sudafrica è cresciuto con una media del 33% annuo.
La Cina, infatti, investe in Africa da molto prima che gli investitori statunitensi ed europei prendessero in considerazione questo mercato; un alto punto a suo favore è che gli investimenti effettuati sono tutti a lungo termine dal momento che l’obiettivo non è un ritorno veloce e la liquidità a disposizione è notevole. Se l’Occidente si fosse reso conto con più anticipo che l’Africa non è solo un contenitore in cui riversare aiuti umanitari, ma anche un luogo in cui avere ritorni commerciali, visto che il tasso di crescita africano nei prossimi due anni è stimato del 5 – 7%, oggi il panorama economico sarebbe differente. Tuttavia, le notizie che ci arrivano dall’economia cinese non sono tutte negative per l’Occidente.
Nell’ultimo periodo, infatti, si è verificato un aumento del costo del lavoro destinato a provocare un cambiamento su scala globale, andando ad incidere prevalentemente sull’economia statunitense. La prospettiva, rosea una volta tanto, è quella di un aumento di nuovi posti di lavoro stimato a 3 milioni e ad un cala della disoccupazione di 2 punti percentuali, il tutto entro il 2020. La spiegazione? Il fatto che la produzione manifatturiera delocalizzata in Cina stia progressivamente rientrando negli Stati Uniti. Insomma, non tutto il male vien per nuocere.
ilaria padovan
Articolo ,come sempre, interessante.
Ciao, ottimo articolo, molto interessante.