Le elezioni del 20-N in Spagna hanno segnato una tappa fondamentale nel percorso politico della nazione: mai un partito aveva ottenuto una tale maggioranza (186 seggi contro i 110 del PSOE, avendo ottenuto la vittoria elettorale in 11 comunità autonome su 17), nemmeno Aznar con i suoi 183 seggi. Difficile dire ora se si tratti di una scelta vincente, soltanto il tempo potrà dimostrarcelo, come sta avvenendo in Irlanda, ad esempio, paese che a un anno dal picco della crisi sta mostrando accesi segni di ripresa grazie ad una ferrea politica di austerity.
Quello che è certo è che la Spagna ha bisogno di una spinta, di un cambiamento, dal momento che sotto il profilo della competitività aziendale si posiziona sotto l’Oman nella classifica mondiale, che il suo spread, nelle ultime settimane, è riuscito a toccare livelli più alti di quello italiano e che gli imprenditori chiedono importanti misure quali: una riforma del mercato lavorativo, una riforma fiscale che vada a favorire gli investimenti con un’attenzione particolare alle PIM e uno stretto controllo della spesa pubblica, andando ad intervenire sulla riforma dell’Amministrazione Pubblica e sul risanamento della situazione fiscale.
Non abbiamo certo dimenticato l’entusiasmo che aveva seguito l’elezione di Zapatero come presidente e dobbiamo ammettere che il governo del Partito Socialista non è rimasto con le mani in mano nel periodo del proprio mandato. Tuttavia, pur avendo realizzato importanti riforme, tanto da rendere la Spagna uno dei fiori all’occhiello dell’Europa e invidiabile a molti italiani, l’ormai ex premier iberico si è limitato all’ambito del sociale, lasciando sospesi importanti ambiti, e creando così lacune che, andandosi a sommare alla crisi che ha investito il mondo, hanno condotto la Spagna allo stato attuale: bisognosa della modernizzazione del modello produttivo, della riforma del sistema energetico, di un miglioramento del sistema dell’istruzione e, non ultima, della promozione dell’internazionalizzazione.
Non sono voci nuove per noi italiani. Non sono voci nuove per molti Paesi europei e, aggiungerei, purtroppo. Sarebbe stato sicuramente più bello vedere una festa a seguito di una vittoria del genere, così come in Italia per alcuni sarebbe stato più bello poter semplicemente gioire delle dimissioni di Berlusconi, invece è il momento peggiore: quello in cui è necessario rimboccarsi le maniche e stringere i denti.
La situazione italiana somiglia a quella spagnola, ma non è la stessa. Stiamo meglio, stiamo peggio? Non credo si possa fare una stima, nemmeno approssimata, ma quello che salta maggiormente all’occhio è che Rajoy è stato eletto dalla maggioranza del popolo, Monti, senza nulla togliere alle sue capacità, no. Eppure i discorsi dei due Capi di Stato mostrano delle notevoli somiglianze. Innanzitutto il tono. Non c’è più spazio per i sorrisi, nemmeno di incoraggiamento. I loro volti sono la risposta ad una richiesta di serietà ed impegno da parte di cittadini che non vogliono vedere i loro sacrifici essere sprecati e che vogliono potersi fidare di chi amministrerà lo Stato fino alle prossime elezioni. Entrambi sono stati molto concisi, anche se il neoeletto premier spagnolo si è concesso un po’ più di quello italiano. La maggiore differenza, invece, è stato il soggetto dei loro discorsi: mentre Rajoy si è rivolto alla popolazione, sottolineando che l’impegno dovrà essere comune e che nessuno dovrà sentirsi escluso dalla sua politica, rimanendo nel vago per quanto riguarda le misure da adottare, Monti è stato più tecnico, ma non ha citato, non si è rivolto ai cittadini che, in fin dei conti, non l’hanno eletto. Monti non sembra qui per restare, Rajoy, forse, sì.
ilaria padovan