FATTA L’ITALIA, FATTI GLI ITALIANI? Antonia Monopoli: una straordinaria storia tutta italiana

E se in Italia non esistesse solo una crisi economica, ma anche una crisi di civiltà? Un’onda di imbarbarimento che investe le istituzioni e la società, lasciandosi dietro di sé le rovine di quelli che noi conosciamo come diritti fondamentali dell’uomo? La nostra classe dirigente utilizza le parole “gay” ed “omosessuale” come insulti; manifestazioni di omofobia imperversano nelle nostre città ed il Parlamento non è in grado di approvare una legge che preveda un aggravamento per gli atti di violenza a sfondo omofobo. La storia che vi racconterò è la storia di un bambino che a 7 anni sapeva di essere diverso; ma che non poteva immaginare le difficoltà che l’avrebbero atteso.

Questa è la storia del piccolo Antonio che oggi si chiama Antonia! Antonia si presenta alla nostra chiacchierata con uno splendido sorriso e quando le dico di fermarmi nel caso in cui le mie domande diventino troppo invasive, mi rassicura dicendo che racconterà tutta la sua storia se questo potrà essere di esempio per qualcuno dei miei lettori.

Antonia, quando ti sei “scoperta”?

«Sono nata nel 1972 a Bisceglie, in Puglia, e all’età di sette anni sentivo di essere diversa dai miei coetanei. Non sapevo il motivo in quanto all’epoca ero del tutto inconsapevole di cosa significasse essere omosessuali. Ero solo un bambino! Fu mio cugino che, notando certi miei atteggiamenti (preferivo giocare con le bambine e nei modi di fare ero effeminato!), disse a mia madre della mia “diversità”. Così i miei genitori, su consiglio del nostro medico, mi portarono al manicomio di Bisceglie. I dottori, effettuato l’elettroencefalogramma, dissero che le uniche possibilità di guarigione erano due: la lobotomia o il lavaggio del cervello. Entrambe le procedure mediche, però, avrebbero avuto delle grosse ripercussioni sulla mia salute fisica e mentale e così i miei genitori, spaventati delle possibili conseguenze, rinunciarono. Fu in quel periodo, allora, che iniziai un percorso psichiatrico che continuò fino ai miei 18 anni. Contestualmente, però, cominciai anche un mio percorso personale alla scoperta della mia sessualità. Ebbi i miei primi rapporti sessuali e conobbi un gruppo di ragazzi omosessuali con cui cominciai ad uscire per andare a ballare o semplicemente chiacchierare nella piazza del paese. Iniziai veramente a vivere senza dovermi preoccupare di quello che dicevo, di come mi muovevo… Ero viva! Allo stesso tempo, però, sentivo un senso di incompletezza che non riuscivo a spiegarmi! Io sapevo di non essere come i miei amici e di non essere attratta da altri ragazzi omosessuali, ma da eterosessuali. Io desideravo un rapporto come solo una donna lo poteva avere con un uomo!»

Non eri omosessuale, ma transessuale!

«Sì, ma all’epoca non lo sapevo! Avevo appena cominciato a scoprirmi e non ero ancora arrivata a capire la mia transessualità. Credo che non avessi neppure chiaro cosa significasse essere transessuale».

Quando lo scopristi?

«Avevo 16 anni e, girando per locali con la mia compagnia, conobbi per la prima volta una transessuale e subito mi riconobbi in lei. Ecco, io volevo essere così! Lei mi disse che se avessi voluto diventare transessuale, l’unica possibilità era di andare a Roma dove avrei potuto finalmente adeguare il mio fisico alla mia psiche. Lei raccontò di lavorare come intrattenitrice in un locale e di guadagnare ciò che un giorno le avrebbe permesso di diventare una donna».

Allora cosa facesti?

«Secondo te? Rubai dei soldi dal portafoglio di mia madre e scappai di casa col primo treno per Roma. Giunsi nella capitale e andai alla pensione indicatami dalla mia amica. Lì, però, scoprì un’amara verità: la pensione era piena di transessuali (molte erano minorenni che, come me, erano fuggite di casa!) e che non facevano le intrattenitrici ma, inserite in un racket organizzato, si prostituivano dando ad una transessuale più vecchia una percentuale dei loro guadagni».

Cosa accadde?

«Non feci in tempo ad abituarmi alla situazione che il giorno seguente arrivarono i miei genitori che mi riportarono a Bisceglie. Tornata a casa, la situazione divenne insostenibile: ripresi il percorso psichiatrico e mia madre e mio padre mi sottoposero a regole più rigide. Ad un certo punto, però, uno dei tanti psichiatri che consultammo disse ai miei che io non ero per nulla malata e che non necessitavo di alcuna terapia medica. Quella che tutti avevano definito “malattia” era semplicemente la mia natura! Fu allora che i miei genitori si rassegnarono e che io inizia a muovere i primi passi verso quella che sono oggi. Adottai uno stile più androgino e cominciai a far delle ricerche su come diventare transessuale. Avevo 21 anni quando incontrai due mie amiche transessuali che mi dissero che se avessi voluto veramente intraprendere  questo percorso di cambiamento, sarei dovuta migrare a Milano come loro. Lì, però, l’unica possibilità di guadagnare i soldi necessari per la transizione era la prostituzione! Non esisteva un’altra via legale che permettesse a noi transessuali di guadagnare i soldi necessari al nostro sostentamento!»

Quindi?

«Lasciai passare qualche mese e riflettei a lungo sulla proposta. La sincerità delle mie amiche mi convinse che quella era la sola strada che potessi intraprendere se avessi voluto veramente diventare Antonia! Era una notte del 1994 quando scesi per la prima volta in strada a Milano e non potevo immaginare che l’avrei fatto per i successivi 10 anni».

Cosa provasti la prima volta che ti prostituisti?

«Se pensi che ero arrabbiata, triste, sconvolta e dubbiosa su quello che stavo facendo, ti sbagli! Ero euforica: per la prima volta nella mia vita potevo scendere in strada con trucco e tacchi. Finalmente potevo esprimere ciò che ero! Col passare del tempo, però, l’euforia lasciò spazio ad una silenziosa depressione che si insinuava in me senza che me ne accorgessi. Un giorno cominciai a chiedermi cosa ci facessi lì, perché mi trovassi in quella situazione… insomma, ero persa! Comincia a cercare nuovi lavori come commessa ed operaia, ma nessuno mi assumeva per via del mio aspetto fisico. Ogni volta che presentavo la mia carta di identità maschile e guardavano il mio corpo dai lineamenti femminili dicevano che per me non c’era posto. Fu un periodo frustrante: volevo cambiare vita, ma non mi era permesso! Questa è la vera piaga che affligge le transessuali: il pregiudizio di chi ci guarda ci chiude ogni possibilità di una vita “normale” e nella legalità, costringendoci alla via della prostituzione».

Dal momento che prima hai detto che il tuo corpo aveva lineamenti femminili, immagino che avessi iniziato una cura ormonale.

«Certo! Era una cura “fai da te”: io e le altre transessuali ci scambiavamo gli ormoni che avevamo personalmente testato, dandoci dei consigli a vicenda. Inizia un percorso medico, seguita da un endocrinologo, solo quattro anni dopo quando rischiai una trombosi ed un brutto sfogo cutaneo. Esiste, infatti, una legge (legge n. 164/1982) che consente di cambiare sesso (adeguando il proprio fisico alla propria psiche), attraverso un percorso medico (sia fisico sia psicologico) curato dalle Asl e pagato dallo Stato».

Una buona legge!

«Ottima! Il vero problema di questa legge è che non tiene conto del fatto che seguire certe terapie comporta la perdita di molto tempo ed un periodo di degenza lungo che persone come me, che sono precarie, non possono permettersi per paura di perdere il posto di lavoro. Prima di incominciare una simile terapia è necessario aver messo da parte un certo gruzzoletto!»

Ma torniamo alla tua storia, perché nel 2002 la tua vita subì un grande cambiamento?

«Nel 2002 conobbi il mondo dell’associazionismo transessuale (ASSOCIAZIONE ARCI TRANS “LA FENICE”) e Debora, l’allora presidentessa dell’associazione, mi orientò presso l’ufficio per persone disagiate del comune di Milano. Attraverso questo ufficio riuscì a inserirmi nel mondo del lavoro, anche se continuavo a prostituirmi perché i soldi che guadagnavo non erano sufficienti per il mio mantenimento. Lasciai definitivamente la prostituzione nel 2005 quando, grazie ad un lavoro di call center di cartomanzia, riuscì a mantenermi. Nel frattempo mi ero sempre più avvicinata al mondo associazionista e cresceva in me la volontà di aiutare coloro che si trovavano nella mia stessa situazione. È in questo periodo che conobbi A.L.A. (associazione nazionale lotta all’Aids) MILANO ONLUS, in cui ho cominciato ad occuparmi di prostituzione in qualità di peer educator (educatore alla pari)».

In cosa consiste esattamente il tuo lavoro?

«Il peer educator è colui che, avendo avuto sostanzialmente le stesse esperienze di coloro ai quali presta servizio, conosce meglio le esigenze ed i problemi dei suoi assistiti. Io faccio un vero e proprio lavoro sul campo, intercettando sulle riviste specializzate le prostitute transessuali, chiamandole al telefono e cercando di spiegare loro i servizi che la nostra ONLUS può offrirgli gratuitamente. Le informo del fatto che attraverso il nostro progetto potrebbero accedere a consulenze legali e mediche gratuite che garantirebbero la loro maggior sicurezza! In molti casi incontro una forte resistenza perché non capiscono come mai io voglia offrire loro un aiuto gratuito.  Non credono alle mie proposte in quanto sono da sempre abituate a pagare per tutto (persino per un posto sul marciapiede dove lavorare!). Noi non vogliamo combattere la prostituzione (non siamo così sciocchi da credere che queste persone non torneranno a prostituirsi!), ma chiediamo che la prostituzione venga legalizzata di modo da rendere la vita delle prostitute più sicura e tutelata».

Oggi come descriveresti la tua vita?

«In salita, ma serena! Il 14 0ttobre di quest’anno mi sono sottoposta ad un intervento di orchiectomia (rimozione dei testicoli) che mi ha permesso di dimezzare la terapia ormonale con un notevole vantaggio per la mia salute e ho quindi potuto chiedere il cambio di nome all’anagrafe. Detto questo, non so ancora se arriverò al cambio di sesso definitivo per i motivi economici che ti ho raccontato prima! Per quanto riguarda il rapporto con la mia famiglia, direi che sta migliorando sempre più. Loro sono neutrali rispetto alla mia decisione di operarmi e rispetto al mio impegno sociale. La loro sola preoccupazione è che io possa raggiungere la felicità e l’equilibrio che ho rincorso per tutta la mia vita. Non ci vediamo moltissimo (solo per le feste natalizie e quelle estive), ma ci sentiamo ed ogni volta che torno in Puglia è sempre festa. Credo che avessero solo bisogno di tempo per maturare e capire quello che mi stava accadendo e poi l’amore che provano per me ha fatto tutto il resto. Hanno vissuto con me la lotta che ho dovuto affrontare e continuo ad affrontare in questo Paese per affermarmi come essere umano e cittadina italiana!»

marcello bonazzi

  2 comments for “FATTA L’ITALIA, FATTI GLI ITALIANI? Antonia Monopoli: una straordinaria storia tutta italiana

  1. lisa
    23 dicembre 2011 at 17:20

    Il 21 dicembre, ho avuto il piacere di conoscere Antonia presso la Onlus dove svolge il suo servizio. Io vivo un momento molto particolare della mia vita dove ho assoluto bisogno di essere ascoltata e, se possbile capita ed aiutata. Quando ho visto Antonia e ho avuto subito l’impressione di avere davanti a me una persona capace di ascoltarmi. Ora che ho letto la sua storia capisco che la mia impressione era giusta e quel senso di umanità e apertura verso di me hanno radici vere e profonde. Grazie Antonia per il tuo impegno.
    lisa

  2. Francesco
    21 marzo 2012 at 10:05

    Io penso che dovrebbe essere una persona come lei a rappresentare le transessuali, non Vladimir Luxuria.

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