Ieri avrete tutti letto del voto alla Camera che ha negato l’autorizzazione all’arresto dell’On. Cosentino. Questo mi dà l’occasione per fare una riflessione che mi sta a cuore sull’art. 68 della Costituzione, in base al quale se l’autorità giudiziaria ritiene necessario eseguire una misura limitativa della libertà personale nei confronti di un parlamentare deve prima chiedere l’autorizzazione della Camera di appartenenza. Ebbene, non si può dire che quella norma sia priva di senso: intende, infatti, tutelare l’esercizio della funzione parlamentare da eventuali iniziative avventate e persecutorie dell’autorità giudiziaria. Il che può certamente accadere, e trattandosi di due funzioni costituzionali (quella legislativa e quella giudiziaria), è bene che ci sia un meccanismo che le ponga in equilibrio tra di esse. Ma, attenzione, il concetto fondamentale è proprio questo: si può dire, oggi, che l’art. 68 stabilisca il giusto equilibrio tra la tutela della funzione parlamentare ed il principio di eguaglianza di fronte alla legge, per cui se io e l’on. Tizio veniamo sottoposti a una misura restrittiva entrambi ne possiamo sopportare egualmente le conseguenze (salvo ragionevoli eccezioni)? Nei fatti, oggi, non penso possa dirsi che le cose stanno così.
Perché il senso della norma è a mio parere chiaro come il sole: la sottoponibilità del parlamentare alla misura restrittiva dovrebbe essere la regola e la non sottoponibilità dovrebbe essere l’eccezione. L’eccezione da percorrersi in tutti quei casi in cui si rileva un’effettiva volontà persecutoria da parte dell’autorità che procede nei confronti del Parlamentare. I fatti dimostrano, però, che le cose stanno all’esatto contrario: la non sottoponibilità è diventata la regola, la sottoponibilità la rarissima eccezione. Perché? Semplice: perché se a decidere sulla questione è lo stesso Parlamento, e quindi la maggioranza politica, è politicamente difficilissimo che la votazione abbia esito sfavorevole per il parlamentare, tanto più se questo appartiene alla maggioranza. Si veda anche solo l’ultima legislatura: a fronte di diverse richieste d’arresto, solo una è stata accolta (nello stupore generale), quella nei confronti dell’On. Papa. Tutte le altre respinte. Inoltre, sfido chiunque a trovare nei dibattiti precedenti al giorno delle votazioni sugli arresti una qualsiasi riflessione strutturata sul merito dell’indagine e sull’esistenza degli indizi di volontà persecutoria. Nulla di tutto ciò: semplici trattative politiche, semplici prove di “tenuta” della maggioranza. Quindi toto-voto nei giorni precedenti e sgradevole corrida in Aula il giorno del voto (memorabile la doppia votazione Papa/Tedesco nello stesso giorno). I fatti parlano chiaro: quella che è una giusta prerogativa parlamentare è stata trasformata nei fatti in un inaccettabile privilegio, in una vera e propria sottrazione alla giustizia penale dei membri del Parlamento.
Come fare? Io la penso così: è giusto che il Parlamento possa intervenire se si tratta della tutela dei suoi membri. Ma non dovrebbe essere il Parlamento stesso ad avere l’ultima parola. La Camera di appartenenza del parlamentare destinatario di misura restrittiva dovrebbe poter sollevare, e io dico con un voto a maggioranza qualificata (più ampia quindi della semplice maggioranza che sostiene il Governo, perché solo in casi davvero fondati e straordinari questo possa accadere), il dubbio sull’esistenza del fumus persecutionis. Naturalmente motivando in modo stringente. Ma a decidere nel merito dovrebbe essere un organo terzo e neutrale, perché no la Corte costituzionale. La questione andrebbe giuridicamente studiata, ma politicamente è un principio che mi sento di poter affermare. Alle forze progressiste sta il compito di trovare il coraggio di percorrere questa strada. Per rimettere al loro posto la regola e l’eccezione, per affermare le giuste prerogative, ma per mettere al bando ogni forma di privilegio.
giacomo galazzo