“La mente ammalata dello schizofrenico può permettergli di vedere cose che non possono entrare nella mente intatta, ma non aperta, di molte persone sane”.
Svuotamento del senso della vita, anestesia emozionale e oggettiva imposta dalla società attaccata al mito della normalità. Ogni forma di protesta, compresa la sofferenza mentale, come indizio dell’aspirazione ad una vita fatta a misura dell’uomo, una vita umana.
“L’esperienza e il comportamento che viene etichettato come schizofrenico è una strategia particolare che una persona inventa al fine di sopravvivere in una situazione insostenibile”.
“La schizofrenia non è solo un disturbo psichico ma la malattia del nostro tempo”.
Perenne ed incontrollabile conflitto tra quello che si è e quello che la società vuole imporci di essere sacralizzando “normalità” e conformismo e mortificando le potenzialità e i bisogni individuali.
“Vi sono in giro persone considerate sane, la cui mente è gravemente ammalata che possono essere pericolose a sé e agli altri, che la società non considera psicotici”.
” Gli uomini di stato che vantano minacciosamente il possesso dell’arma finale sono di gran lunga più pericolosi ed estraniati dalla realtà di molti ai quali è stata applicata l’etichetta di psicotico”.
I manicomi erano il luogo in cui gli invisibili rimanevano invisibili, le persone “scomode” lo diventavano, dove tutte le persone esclude dalla società sparivano indistintamente e “democraticamente”.
Nei manicomi non erano contemplate terapie di riabilitazione e reinserimento, si poteva solo parlare di “strumenti di contenzione” volti a distruggere psicologicamente e fisicamente i degenti rendendoli innocui per la società.
“È estremamente facile per la psichiatria ridursi ad essere una tecnica di lavaggio del cervello. […] Nei luoghi di cura migliori, dove la camicia di forza è stata abolita, dove le porte sono senza chiavistelli, dove le leucotomie non si fanno quasi più, si usano tuttavia mezzi di aspetto più innocuo, lobotomie e tranquillanti che ri-istituiscono, questa volta dentro il paziente, le sbarre e i catenacci del manicomio”.
13 maggio 1978 – Legge n. 180 “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori” – conosciuta ai più come Legge Basaglia, impose la chiusura degli ospedali psichiatrici sostituendo la sbrigativa e inumana soluzione dell’internamento con progetti terapeutico-riabilitativi.
Legge rivoluzionaria che combatte l’esclusione e l’abbandono sociale demolendo la concezione del malato come persona priva di dignità e soggettività, restituendogli libertà e umanità.
A più di trent’anni da questa legge sappiamo che le cose non sono andate proprio come previsto. Le strutture di assistenza psichiatrica, nate dalle ceneri dei vecchi istituti, sono alle prese con la difficile collocazione del cosiddetti “residui manicomiali”, gli ex-degenti, ora “ospiti”, che nella maggior parte dei casi hanno trascorso buona parte della loro vita esclusi dal mondo esterno. Poi ci sono le famiglie che “il matto in casa non lo vogliono” e che non vogliono o non possono farsene carico da sole mentre lo Stato resta indifferente alle lacune dei nuovi servizi assistenziali alternativi e all’insufficienza dei sostegni finanziari.
A più di trent’anni dalla legge Basaglia non siamo ancora pronti a parlare senza vergogna delle malattie mentali e tuttora i soggetti affetti da problemi psichiatrici sono emarginati e reietti dalla società.
Siamo figli di una società “a basso contenuto umano” che punta ancora tutto sul fallimentare binomio “crescita economica = benessere dei cittadini” senza curarsi del problema dell’emarginazione sociale del “diverso”.
Ronald D. Laing diceva: “Se la specie umana sopravvivrà, gli uomini del futuro considereranno la nostra epoca illuminata, immagino come un vero e proprio secolo d’oscurantismo. Saranno indubbiamente capaci di apprezzare l’ironia di questa situazione in modo più divertente di noi. È di noi che rideranno. Sapranno che ciò che noi chiamiamo schizofrenia era una delle forme sotto cui – spesso per il tramite di gente del tutto ordinaria – la luce ha cominciato a filtrare attraverso le fessure delle nostre menti chiuse. La follia non è necessariamente un crollo (breakdown); essa può essere anche una apertura (breakthrough). L’individuo che fa l’esperienza trascendentale della perdita dell’ego può e non può perdere l’equilibrio, in diversi modi. Può allora essere considerato come pazzo. Ma essere pazzo non è necessariamente essere malato, anche se nel nostro mondo i due termini sono diventati complementari. Dal punto di partenza della nostra pseudosalute mentale tutto è equivoco. Questa salute non è una vera salute. La pazzia dei nostri pazienti è un prodotto della distruzione che imponiamo a loro e che essi impongono a sé stessi. Nessuno immagini che ci imbattiamo nella vera pazzia, così come non siamo veramente sani di mente. La pazzia con cui abbiamo a che fare è un grossolano travestimento, una falsa apparenza, una grottesca caricatura di ciò che potrebbe essere la guarigione naturale da questa strana integrazione. La vera salute mentale implica, in un modo o nell’altro, la dissoluzione dell’ego normale”.
“Io” mi chiedo: chi disegna i confini della follia?
(continua…)
Le citazioni sono tratte dal libro: L’io diviso (The divided self), Ronald D. Laing, Einaudi, 1955.
Progetto fotografico realizzato presso l’ex-manicomio di Mombello (Limbiate).
Costruita nel 1754 dall’architetto Francesco Croce sui resti di edifici che risalivano addirittura al Medioevo, nell’Ottocento la struttura era conosciuta come “la villa di Napoleone”, perché lì fissò la residenza l’imperatore francese durante la campagna d’Italia. Un secolo più tardi la settecentesca Villa Pusterla-Crivelli e il suo grande parco vennero trasformati nell’ ospedale psichiatrico Giuseppe Antonini, che intorno al 1960 arrivò ad avere più di 3.000 pazienti, attirandosi l’appellativo di “colosso dei manicomi italiani”. Dopo la Legge Basaglia del 13 maggio 1978, la struttura venne lentamente abbandonata e attualmente quasi la totalità dei padiglioni si trova in uno stato di totale degrado e abbandono.
Ringrazio per la collaborazione a questo progetto Andrea Forni.
silvia belloni
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