Questo non è un semplice viaggio è un ritorno! Sì perché andare in India è sempre come tornare e non perché spesso io venga qui, ma perché essere qua ha il sapore di un ritorno… anzi, di una riscoperta non priva di contraddizioni. Il mio soggiorno in India si svolge principalmente a Benares, detta anche Varanasi o Kashi “la luminosa”, culla della civiltà hindu, dove mi reco ogni anno principalmente per studiare sitar, strumento fondamentale della tradizione musicale indiana, con il mio guru ji, (“maestro”).
Viaggiare soli in India, è sicuramente un’esperienza forte, in molti sensi. Benares poi non è certo una città che può lasciare indifferenti. C’è chi la ama e sente spesso il bisogno di tornarci e chi invece sconvolto dal vortice dall’energia con cui questa città sa travolgere, volentieri parte senza rimpianti. Ancora c’è chi ha un rapporto ambivalente: ovvero c’è chi racconta di non riuscire a capacitarsi di come possano accadere certe cose, ma al tempo stesso, ed anzi forse proprio per questo, non può resistere a quell’effetto che solo una città “forte” come Benares può esercitare.
L’impressione che si ha arrivando qui da altri luoghi dell’India è sempre quella di un posto unico, che è rimasto immutato nel corso dei secoli o, meglio, dove antichità e tradizioni convivono a fianco di una modernità chiassosa. D’altronde Varanasi, con alle spalle migliaia di anni di storia, è la città più antica al mondo e questa stessa eredità storica sempre viva si avverte entrando in uno dei tantissimi templi della città o camminando per le vie strettissime e labirintiche (gali) della parte più antica, dove è inevitabile essere sopraffatti da un’ondata di colori e odori…
Ho trascorso ore intere stando semplicemente seduta su uno dei tantissimi ghat, le immense scalinate che digradano nel sacro fiume Gange, ad osservare la vita in tutte le sue forme che scorreva davanti agli occhi. Vita e morte. È, infatti, comune imbattersi in processioni funebri di persone vestite di bianco (il colore del lutto) col capo rasato, che sfilano nel traffico, passano davanti ai mercati e ai luoghi più affollati – proprio laddove la vita sembra pulsare più animatamente – per accompagnare il defunto al ghat dove il suo corpo verrà bruciato su una pira. D’altronde, chi muore a Benares, la città sacra per eccellenza, non dovrà più rinascere ed otterrà la liberazione.
La vita. La quotidianità sembra ancora essere scandita da gesti tradizionali. Specialmente all’alba, momento ‘sacro’ per eccellenza, si possono vedere un numero incredibile di devoti intenti a compiere abluzioni, rituali, preghiere o spesso semplicemente indaffarati a lavarsi, a fare il bucato. Qualche ragazzino accompagna anche i bufali a fare il bagno nel fiume mentre i barcaioli sono impegnati a traghettare turisti in quella che molti (indiani!) amano definire la “Venezia dell’India”.
Come non rimanere colpiti poi dalle vie strettissime in cui la presenza di vacche, capre, cani, biciclette, riksha (risciò) moto, auto di qualsiasi epoca e tipo, carretti e mezzi di locomozione tra i più svariati crea un traffico “selvaggio”, eppure scorrevole se ci si sa muovere al suo interno. Questa è l’India: in quello che può apparire il caos più totale si trova sempre un ordine, una logica che, a prima vista, può sfuggire al viaggiatore occidentale. Una logica che ti chiede di abbandonarti e lasciarti trasportare dalla vita: vita in tutte le sue diverse e innumerevoli manifestazioni.
erika caranti