Quello che scrivete, e come lo scrivete, può cambiare la vostra vita. Lo diceva Beppe Severgnini e noi abbiamo sempre pensato che sia vero. Con questa consapevolezza, con la voglia di esprimere la nostra opinione e con l’entusiasmo di una sfida nuova ed eccitante, tre anni fa abbiamo creato UAU magazine.
Arrivato il tempo dei bilanci, piuttosto che pensare ai numeri, abbiamo preferito parlare di idee ed esperienze vissute in questo triennio. Essere giovani, avere un progetto e riuscire a realizzarlo. Facile, ci potrà essere obbiettato da qualcuno di voi. Perlomeno faticoso, replichiamo noi!
Negli ultimi mesi, è impossibile non essersene accorti, tutti i mass media paiono riempirsi a profusione la bocca della parola “giovani”. Dalla disoccupazione alla generazione perduta, dalla classe politica da svecchiare ai bamboccioni. L’immagine che ne esce è che i figli sono vittime dei loro padri e più in generale del sistema; ma ne siamo così sicuri? O forse qualche giovane sta cavalcando un po’ troppo l’onda del vittimismo? Non ci stiamo nascondendo dietro facili scuse e subendo passivamente i momenti difficili?
In questi tre anni al timone di UAU magazine abbiamo avuto molti, moltissimi rapporti con nostri coetanei. Con tanta pazienza abbiamo spiegato a decine di giovani i nostri motivi, il nostro modo di lavorare e di pensare. Gli abbiamo fatto capire, o almeno ci abbiamo provato, perché può valere la pena investire il proprio tempo libero in un magazine e nel fare opinione. Gli abbiamo spiegato che una pagina bianca da riempire ti mette alla prova, che se non sai di che argomento vuoi scrivere meglio che non scrivi, che le correzioni servono per imparare ad accettare consigli e per perfezionarsi. Abbiamo offerto loro una vetrina per mettersi alla prova, una pagina bianca da riempire di idee, un progetto da costruire e plasmare. Non solo, gli abbiamo offerto un’importante occasione per fare gruppo e per farsi notare.
Non abbiamo mai cercato tecnici o professionisti, ci bastavano persone con idee, passione e voglia di fare; poi l’arte l’avremmo affinata col tempo, tutti assieme. A oggi dei numerosissimi giovani con cui abbiamo parlato in questi tre anni, i collaboratori si contano sulle dita di una mano. A molti è mancata la tenacia. Altri, improvvisamente, non avevano più niente da dire. Altri ancora volevano farlo, ma non ci hanno nemmeno provato. Tutto questo nel contesto di Pavia, una città con 25.000 studenti universitari e di un magazine che da tre anni è sul pezzo.
La nostra esperienza non fa sicuramente statistica, non è una sentenza o una condanna alla generazione giovanile, non fa emergere una malattia, ma sicuramente è un sintomo alquanto preoccupante. La maggior parte dei giovani vive gli anni dell’Università passivamente: non propone perché preferisce guardare, non parla perché preferisce ascoltare, non combatte perché preferisce lamentarsi, non sogna perché preferisce dormire.
La nostra non è una battaglia contro i giovani, anzi, perché la verità è che li abbiamo sempre difesi. Abbiamo sempre gridato che la scarsa fiducia nei giovani è la peggiore scelta possibile per ogni società e in ogni tempo. Abbiamo sempre detto ai nostri lettori che siamo la voce dei giovani sui giovani.
Il nostro è solo il bilancio di un triennio di rapporti umani. Potremmo anche passare ore a raccontare di persone brillanti, talentuose e piene di voglia di fare perché abbiamo conosciuto anche quelle. Pochissime per la verità. Ma tutti gli altri cosa stanno facendo? La parola “giovani” non è un jolly da giocarsi a piacimento, gli italiani ne stanno abusando e il suo significato sta cambiando nel tempo. Forse molti di questi giovani si sono sentiti dire che loro sono la generazione perduta e quel giorno, immediatamente, si sono arresi alle idee degli altri, senza aver mai provato a esprimere, neanche una volta, la loro opinione e si ritroveranno così a osservare ormai inermi il cadavere della loro giovinezza scorrere lungo le sponde di un torrente.
Fabio Lunghi e Lorenzo Meazza