Questa Biennale, per ora, non ha suscitato critiche. Non so se sia una buona notizia, ma quantomeno è insolita. Storicamente ci sono sempre state lamentele sulle “Biennali”, sicuramente alcune motivate, ma tante capricciosamente inutili. Quest’anno sembra possibile occuparsi solo d’arte, che per i non-addetti come me è l’unica cosa interessante. Dopo una breve polemica sulle polemiche, arrivo al nocciolo.
La Biennale è un ingranaggio che mette in moto due meccanismi: Il padiglione centrale, ed i padiglioni nazionali. Il Padiglione Centrale quest’anno è la sede del “Palazzo Enciclopedico”, cioè l’illusione di un luogo finito dove concentrare un sapere infinito. Il progetto è stato realizzato oggi, ma è nato il 16 Novembre 1995 nella mente di un’artista italo-americano di nome Auriti. Auriti aveva depositato all’ufficio brevetti la sua idea di Palazzo Enciclopedico, un museo alto 700 metri che potesse ospitare tutto il sapere fin lì raggiunto dall’umanità. Il museo installato nel Padiglione Centrale, infatti, indaga il desiderio umano di conoscere tutto, ed i suoi tratti ossessivi.
L’esposizione porta gli osservatori a ragionare sulla società dell’informazione, sul diluvio di dati in cui quotidianamente nuotiamo, e sulla possibilità di riservare un po’ di spazio alla creatività in un momento in cui la realtà è già così strabordante. Muovendomi nel Palazzo, ho l’impressione che il problema non sussista. Che non esista un perimetro definito, per cui una realtà molto ingombrante, evidente ed esigente, occupa tutto lo spazio, sottraendolo alla creatività.
La mia impressione è che più la realtà è complessa ed eccessiva, più la creatività è stimolata. Che lo spazio dell’immaginazione, sommato a quello del reale, non dia una somma costante, ma in costante espansione. Fantasia e realtà si alimentano a vicenda.
Oltre il Padiglione Centrale, ci sono le Olimpiadi, ovvero l’insieme dei padiglioni nazionali, ognuno con il proprio team: curatore (allenatore) più artista (atleta). Questa volta, la 55esima, i paesi partecipanti sono 88, ed il Vaticano è una della new entry. Osservando le opere nei padiglioni, ho due tipi di reazioni: quando capisco il concetto che sta dietro agli oggetti, o ce ne vedo uno, anche se diverso da quello che l’autore intendeva esprimere, ho un tipo di reazione “faticosa”, perché implica ragionamenti, sforzi, e pensieri.
“La reazione rilassata” invece è il puro piacere sensoriale che le opere possono dare: per la loro forma, l’atmosfera, il loro odore, il suono o il materiale, e per come queste caratteristiche stanno insieme. Queste sono le opere che non mi fanno ragionare, ma solo godere. Alcune opere provocano una delle due reazioni, alcune nessuna, e quelle che le provocano entrambe diventano le mie preferite.
RUSSIA
Nel padiglione russo l’installazione riempie tutto lo spazio, riunendo piano superiore ed inferiore. Qualcuno mi ha anche detto che l’architetto del padiglione è lo stesso che progettò il Mausoleo di Lenin a Mosca.L’opera si chiama “DANAE”, e si ispira al mito greco in cui Zeus, dopo essersi trasformato in una pioggia di monete d’oro, feconda Danae appunto.
Inginocchiandosi e guardando in basso, si cade in un nuovo spazio. Qui piovono le monete d’oro provenienti da una piramide di vetro che fa da soffitto alla sala.
Lo spazio inferiore può essere visitato solo dalle donne, non per sessismo, ovviamente, ma per la costruzione anatomica del mito: ciò che è maschile può solo introdursi, sotto forma di pioggia dorata, e non può far parte della concavità che invece “ospita”.
Sulla parete c’è scritto: “… è giunta l’ora di confessare la maleducazione, la lussuria, il narcisismo, la demagogia, la falsità, la banalità, l’avarizia, il cinismo, la ruberia, la speculazione, lo spreco, l’ingordigia, la seduzione, l’invidia e la stupidità che risiedono in noi”.
Nella mente dell’autore il mito di Danae è emblema di questi vizi, e noi siamo la prova che per quanto la società abbia cessato di credere nei miti, non cessa di metterli in atto. Dopo quello russo, il secondo padiglione che ho visitato è stato quello coreano. Splendido.
REPUBBLICA DI COREA
“Reazione faticosa” e “reazione rilassata” perfettamente in parallelo, da quando ho tolto le scarpe entrando, a quando le ho rimesse uscendo. Il nome dell’artista è Kimsooja, quello dell’opera è “Bottari, che in coreano significa “fagotto” o “involtino”, ed è la parola che l’artista ha scelto per indicare la nostra parte interiore.
La divisione tra il mondo naturale e la parte interna del nostro corpo è marcata da una pellicola trasparente, le pareti del padiglione. Le finestre fungono da pelle dell’edificio, e rifrangono la luce del sole nei colori dell’arcobaleno.
Il Padiglione è diviso in due spazi, uno che avvolge l’altro, il primo si chiama “To Breathe”: Si entra solo a piedi scalzi, c’è un brusio diffuso che amplifica l’inspirazione-espirazione dell’artista, la sensazione corrispondente è che tutto “l’involtino” stia respirando, e l’intensità della luce al suo interno è infinitamente più potente di ciò a cui siamo abituati.
A me è sembrato di stare dentro ad un arcobaleno.
Il secondo spazio è nella pancia del primo, e si chiama “To Breathe: Blackout”: è una stanza piccola, completamente vuota, completamente buia, e completamente insonorizzata. Ogni onda acustica e ogni eco vengono assorbiti; in esso l’impressione di essere sospesi, è accompagnata da quella di essere l’unica forma di vita presente. Essere da soli, in un assoluto buco nero, è un modo efficace e violento per portarci a riflettere.
Uscita dalla Repubblica di Corea, sono entrata in Canada.
CANADA
L’opera si chiama “Music for silence”, e in essa Shary Boyle, l’artista, si comporta come una “contro-regista”, una per cui il film si incentra sui personaggi marginali, quelli muti, le comparse. È per dare voce a questi esclusi che elimina del tutto i protagonisti. “Music for the Silence” parla di solitudine, isolamento e silenzio. O forse parla del rumore e della vivacità che può esserci nelle menti delle persone quando sono sole, isolate, ed in silenzio. Quando pensano, o sognano, insomma.
Su questa scultura bianca
appaiono immagini allucinanti diverse ad ogni scatto del proiettore.
L’artista canadese non ammette distinzioni di “genere”, ed anche in queste proiezioni, non si preoccupa che le sue creature appartengano in modo inequivocabile ad una delle due categorie: umano-animale, animato-inanimato, vecchio-giovane, vivo-morto, femmina-maschio. Dal Canada sono arrivata in Europa, in un paese lontano geograficamente ma non culturalmente.
GRAN BRETAGNA
Il padiglione inglese si è dimostrato il più schizofrenico.
L’esposizione si chiama “English Magic”, ed è stata realizzata da Jeremy Deller, quello con i pantaloni rosa shocking. Era esplicitamente nelle sue intenzioni realizzare qualcosa di psichedelico, che parlasse della storia britannica, non intesa come il suo passato, ma come passato, presente, e futuro immaginario. È un padiglione con idee socialiste, le meno scontate considerando che alla direzione politica ed economica dell’Inghilterra viene spontaneo associare il tailleur di Margaret Thatcher.
Jeremy Deller ha organizzato la sua prima personale in casa dei suoi mentre loro erano in vacanza. Il suo obiettivo è quello di rappresentare il “Surrealismo sociale”, cioè le stranezze delle vite quotidiane, che a lui piacciono, ma che piacciono a tutti in fondo. Nella prima sala si trova l’opera intitolata “Voglio essere invisibile”.
Nella seconda sala del padiglione, su una parete è dipinta l’opera “Moriamo di fame circondati dalle nostre ricchezze”.
In tutte le opere c’è politica, in tutte le opere di Jeremy Deller c’è molta politica, ma nella terza sala del suo padiglione la politica viene prima dell’arte. “Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo” è il nome dell’opera.
Nell’ultima sala si trova l’ultima opera: “Bevan cercava di cambiare la nazione”.
Il tour è stato per i giovani un rifugio dalla realtà, o una prospettiva diversa per guardarla, e per vedere con altri occhi i problemi economici e politici che gravavano i loro genitori.
Per ultimo, ho tenuto il padiglione più interessante.
GIAPPONE
In esso solo “reazioni faticose”, nulla di sensorialmente inebriante, ma tutto estremamente intelligente. Appena entrati nell’edificio si ha la sensazione di un disordine post-emergenza, e in effetti è così. Il padiglione è riempito da torce elettriche, libri, cuscini, ceramiche, ed in mezzo al caos qualche fotografia e qualche monitor. A fianco all’apertura dell’ingresso un numero “9.478,57 km”, è la distanza tra il reattore n°1 dell’impianto di Fukushima ed il Padiglione.
Le opere presenti nel padiglione sono opere collettive, che secondo l’artista fanno da metafora del lavoro congiunto per la ricostruzione. Cinque compositori su di uno stesso pianoforte, nove parrucchieri all’opera sullo stesso taglio, cinque poeti concentrati sugli stessi versi. Gente di uguale professione che si avvale dello stesso linguaggio tecnico per raggiungere risultati simili, o contrastanti.
È impossibile vivere senza interagire con gli altri. In tutte le interazioni, a volte ci troviamo d’accordo, altre volte in disaccordo. Questo è uno dei temi dell’opera di Koki Tanaka, che ha voluto rendere ogni interazione registrabile come evento. L’artista è convinto che in ogni processo di interazione si rifletta la nostra stessa società, come si muove e come agisce. “Noi uomini – anche nell’arte – tendiamo a dare importanza al risultato” scrive Tanaka, ma le gare si concludono in un attimo, è la vita reale degli atleti, quella dell’allenamento, della sfida dei propri limiti, del miglioramento, della strategia, il vero Sport. Nello stesso modo, per l’artista giapponese, il processo di creazione è molto più interessante della creazione finita. Per lui, registrare un processo di gruppo vuol dire combattere la tendenza dell’umanità a valorizzare solo il risultato.
“Le nostre vite si basano sul lavoro svolto da altri” dice, ed in effetti è vero: quando entriamo in un pronto soccorso, ritiriamo il diploma, compriamo un chilo di ciliegie. Con le persone che incontriamo collaboriamo, negoziamo, patteggiamo. La collaborazione è il nostro quotidiano. In questo progetto Tanaka ha voluto mettere da parte sia gli artisti, che l’opera, ed evidenziare solo l’atto. Nei video in cui sono registrate le opere collettive nel loro svolgimento, le persone ci sono, ma da un certo punto in poi è come se scomparissero, e l’unica cosa evidente è la pura azione.
“L’interazione” è solo uno dei temi che Tanaka tocca splendidamente nel suo lavoro, un altro è quello del “dramma”, ed è per parlare di questo che usa il terremoto solo come un mezzo, mentre l’obiettivo rimane parlare di dolore in senso universale. La catena di eventi scatenata da un dramma come il terremoto dell’11 Marzo 2011 ha avuto conseguenze devastanti sul Giappone. Chi ha vissuto quel dramma quali messaggi e quali domande può lanciare verso gli altri paesi del mondo?
I giapponesi si trovano combattuti tra il loro ruolo di vittime e quello, potenzialmente utile per l’umanità, di spettatori.
Tra i pensieri dell’artista trovo: “Esiste una barriera spazio-temporale che divide coloro che hanno sperimentato sulla loro pelle le conseguenze di un evento da chi le ha invece subite solo in modo indiretto; chi abita in territori lontani da dove esso si è verificato o chi nasce in epoche distanti nel tempo da esso. Noi siamo puntini sparsi in una distesa di spazio e tempo. Quest’esibizione non è che un ricettacolo in cui quei punti dispersi e solitari che noi siamo possono incontrarsi e intendersi un po’”.
Chi ha sofferto, ma solo per cause che l’opinione pubblica considera “lievi”, può capire chi soffre per cause drammatiche, come vedere raso al suolo il suo mondo? Secondo me sì, il dolore è relativo. “Questo progetto è una piattaforma creata come stimolo che conduca ad aumentare la condivisbilità di un evento e la sua comprensione, e come tale si astrae dal suo contesto spazio-temporale”. Tanaka vuole parlare di Dolore, non solo del dolore dei giapponesi terremotati.
Noi tutti abbiamo problemi, ognuno di essi è personale, non condivisibile totalmente con chi ci circonda. Anzi, la stessa compassione, o la pietà, non fanno altro che ricalcare la linea di demarcazione tra chi ha un problema e chi non ce l’ha. Il vettore della compassione si muove sempre da chi non soffre nella direzione di chi soffre, il contrario non può avvenire. Per questo la pietà accentua solo le differenze, ed allontana invece di aiutare. Per questo per aiutare servono strumenti diversi.
“Quando si guarda alla società giapponese, in questo nuovo contesto, ci si accorge che le azioni più ordinarie della vita quotidiana hanno assunto da quel giorno un nuovo significato. Per esempio, chi vive in Giappone oggi usa le scale ovunque può, anche quando ci sono ascensori e scale mobili. Nessuno vuole essere dipendente dall’elettricità, e dalle centrali nucleari. Per questo, quando ho visto una marea di persone usare le scale nella stazione di Tokyo, mi è sembrato di assistere ad una dimostrazione.” Il comportamento spontaneo di quelle persone, esprime una scelta, ed è un atto più politico di mille cortei in piazza, un atto che merita attenzione.
Ecco, la missione di Tanaka è che il Giappone terremotato non abbia la compassione del mondo, ma la sua attenzione.
I critici hanno fatto bene a non sprecare il tempo in polemiche,
serve tutto per assaporare solo cose belle.
cecilia sala
Un commento sull’arsenale? :)
Mi è spiaciuto non aver avuto tempo di vedere la Russia, che a quanto leggo sembrava davvero interessante.
MI sono entusiasmata come te per Sud Corea e Inghilterra.
Bene il Padiglione Italiano di Petromarchi, benino il Palazzo Enciclopedico ai giardini, da Gioni, senza polemiche, mi aspettavo di più.
Io sono rimasta affascinata dal padiglione Spagnolo e anche dal Cripplewood del Belga.
Se non sei riuscita ad andare all’arsenale ti sei persa una oscena parte seconda del Palazzo Enciclopedico, un deludente – rispetto a due anni fa – padiglione cinese, uno strepitoso padiglione Indonesiano, uno Turco commuovente tutto sul concetto di resistenza e un padiglione dell’America Latina, tripudio dei cinque sensi.
:)
Ciao!
Marcella
Concordo con Marcella su arsenale e con entrambe su
Inghilterra, mentre Russia mi è sembrata un po’ pacchiana!