Intervista al direttore d’orchestra Francesco Cilluffo

A Pavia ho incontrato e intervistato per voi Francesco Cilluffo, giovane direttore emergente nel panorama della musica lirica e sinfonica, nazionale ed internazionale, che dirigerà il “Tancredi” di G. Rossini, in scena il 22 e 24 novembre presso il Teatro Fraschini.

Parliamo dal lavoro che hai appena svolto qui a Pavia, al Teatro Fraschini, un’opera che viene eseguita raramente nelle stagioni liriche anche dei maggiori teatri italiani ed europei, ma che, tuttavia, viene definita dal grande scrittore francese Stendhal la miglior opera di Gioacchino Rossini, «la perfetta sintesi tra melodia italiana e armonia tedesca». Immagino, data anche la tua giovane età, che sia la prima volta che affronti questo titolo. Raccontaci quello che ti ha colpito maggiormente del “Tancredi”.

«“Tancredi” mi affascina in quanto opera che si trova a metà strada tra eleganza classica e malinconia romantica. Questa cifra espressiva particolare dell’opera assume ancora più importanza nella versione di Ferrara (che eseguiamo a Pavia), frutto dell’influenza su Rossini da parte del cenacolo letterario del conte Lechi e, indirettamente, di Ugo Foscolo. Ho cercato quindi di fondere l’aspetto classico e quello romantico nella mia concertazione, sia nelle variazioni (e nelle cadenze suggerite ai cantanti) che nelle pagine di descrizione naturale, attraverso un suono strumentale morbido e cantabile che al tempo stesso conosce sonorità ancora di stampo quasi barocco (come nei recitativi accompagnati, dove faccio suonare anche il clavicembalo)».

L’allestimento registico di questo “Tancredi”, liberamente ambientato in un non specificato “sud europeo” del dopoguerra (fine anni ‘40), è curato da Francesco Frongia, mentre tu, appunto, sei il responsabile della parte musicale. Puoi spiegare ai nostri lettori come si sviluppa il rapporto tra direttore e regista in un’opera lirica? E, in questa occasione particolare, com’è stato rapportarsi con Francesco Frongia e con la sua visione registica del “Tancredi”?

«Normalmente il direttore d’orchestra e il regista si incontrano prima di cominciare a lavorare insieme in teatro e, se tutto va bene (cioè se non si parte da concezioni diametralmente opposte del testo), si trova un terreno comune di lavoro. Trovo curioso che la figura del regista nel teatro d’opera sia una creazione recente, e che la sua importanza sia cominciata a crescere solo dagli anni ’50 del secolo scorso; ai tempi di Toscanini, ad esempio, il direttore d’orchestra curava anche i movimenti dei cantanti sulla scena. Io credo molto nella presenza costante del direttore d’orchestra nel corso delle prove di regia e nella totale collaborazione tra regista e direttore, dove è però essenziale che il direttore si interessi al teatro quanto il regista alla musica: si deve cioè riuscire ad entrare in simbiosi con l’arte altrui, sempre confrontando e rispettando l’area di competenza dell’altro. Alla luce di questo, mi diverte molto ricordare che in inglese “regista” si dice “director” e direttore d’orchestra “conductor”, quasi a voler rafforzare questa interscambiabilità.

Rapportarmi con la visione di Francesco Frongia non mi è stato difficile, poiché per quest’opera Francesco ha pensato a un mondo in ricostruzione, il Sud post-bellico, nel quale l’elemento solare e quotidiano è sempre presente, e diventa mano a mano una cornice nella quale si inserisce il dramma di Tancredi e Amenaide, fino ad arrivare ad una sorta di “teatro al quadrato” nel finale… ma ovviamente mi guardo bene dallo svelare gli elementi chiave dello spettacolo!».

Un’opera seria ed “eroica”. L’eroe guerriero è Tancredi, ma forse l’eroe più vicino a noi è Amenaide che rifiuta un matrimonio combinato dal padre e che per non svelare l’identità dell’amato e metterne a rischio la vita, si fa rinchiudere in carcere. Rossini, anche nelle sue opere buffe, ci racconta una società (anche politica) e delle “storie” che sembrano spesso molto attuali. Possiamo fare nostre alcune idee rossiniane, per trarne quantomeno degli spunti di riflessione sulla società attuale?

«Giustamente citi il caso di Amenaide. Non credo di esagerare nel dire che Amenaide rappresenta, almeno ai nostri occhi, un caso di donna privata della propria voce da una società maschilista e guerrafondaia. Il segreto che la giovane svela solo alla fine dell’opera e che potrebbe risolvere tanti equivoci (a rischio della propria vita, come sarà per Elsa nel “Lohengrin” di Wagner) non è solo sintomo del suo “eroismo”, ma è anche il triste ricordo che in alcune società la voce della donna non contava e continua a non contare. Nel Finale del Primo atto dell’opera, ad esempio, è subito palese come tutti gli uomini dell’azione (i cavalieri, il padre, il fidanzato segreto, il turpe pretendente) siano pronti a condannare e quasi a “lapidare musicalmente” Amenaide appena si presenta un sospetto della sua infedeltà – in un finale di atto che usa meccanismi musicali dell’opera buffa proprio per denunciare l’assurdità del pensiero dei personaggi».

Francesco CilluffoTu hai 34 anni. Perché un giovane, oggi, dovrebbe andare a vedere un’opera lirica?

«Ti risponderei pensando al modo in cui si va all’opera in paesi come la Germania o l’Inghilterra, e cioè come intrattenimento. Ma vorrei anche che un giovane (ma anche un meno giovane) capisse che il bello dell’opera sta nel suo raccontare una storia per raccontarne un’altra. È grazie alla musica che questa dimensione “altra” può venire fuori e parlare ancora oggi ad un ascoltatore e spettatore: insomma, io vedo “Aida” e penso che tutto questo urlare di Egizi ed Etiopi scritto oltre un secolo fa da un anziano signore parmense non ha nulla a che fare con me. Però poi sento cantare una donna (Aida, appunto) che è lacerata tra il dovere verso la propria famiglia e un amore irrazionale eppure forte che la consuma, ed ecco che la musica mi fa pensare a quella volta che magari anche io sono stato innamorato della persona sbagliata sentendomi in lotta col mondo e con la mia famiglia. E quindi quel vecchio signore di Busseto di fine Ottocento mi aiuta a capire qualcosa del mio mondo, così come può fare un cantautore di oggi o un poeta o uno scrittore che raccontano storie maggiormente vicine alla mia quotidianità».

b2Poco prima di questo “Tancredi” eri a Sassari a dirigere “Cavalleria rusticana” di Mascagni, ora Rossini e poi? Quali sono i tuoi impegni futuri e come riesci ad entrare subito nel clima dell’opera che stai affrontando che, come nel caso di Mascagni e Rossini, è totalmente differente dalla precedente, non solo musicalmente ma anche culturalmente?

«Nel mio futuro ci sono cose molto diverse: una sinfonia di Shostakovich e un opéra comique di Donizetti, così come Puccini e Verdi, ma anche prime assolute di opere contemporanee.

Per rispondere alla tua domanda, un problema del mercato musicale attuale è quello di mettere etichette e di stupirsi nel vedere autori diversi come Mascagni e Rossini figurare assieme nel curriculum di un giovane direttore. Però, se ci documentiamo, la grande tradizione esecutiva (anche italiana) ha sempre toccato tutti i periodi della storia della musica. Toscanini (come Leinsdorf, Reiner, Stokowski o anche Serafin) amava Monteverdi, ma dirigeva sia Mozart che Wagner, passando per Catalani, Debussy e Verdi. Lo stesso si potrebbe dire anche di una figura di grande riferimento appena scomparsa, e cioè del Maestro Bruno Bartoletti, che era al tempo stesso un grande direttore del repertorio verista italiano, ma anche un fine interprete di Britten, Dallapiccola e un noto verdiano e pucciniano, senza dimenticare certe opere contemporanee da lui eseguite, come “La Lupa” di Marco Tutino. E poi, scavando e studiando (due attività fondamentali del direttore, a mio avviso) ci sono molti più rapporti tra Rossini e Mascagni di quello che si creda. Pochi ricordano, infatti, che Mascagni fu direttore per anni del Liceo Musicale di Pesaro e che fu il primo a fare eseguire la “Petite Messe Solennelle” nella città natale di Rossini, oppure che si deve al Mascagni direttore d’orchestra (oggi assai poco ricordato) se un’opera come “Mosè” di Rossini è entrata nel repertorio dei teatri d’opera italiani del Novecento.

Ogni opera richiede lo stesso impegno di studio e dedizione da parte di un direttore d’orchestra, elementi che vanno applicati a tutto il repertorio. Certo, nell’affrontare periodi particolarmente lontani dal nostro gusto e dalla nostra prassi esecutiva è importante documentarsi, ma sicuramente nella nostra epoca non mancano le fonti a cui appoggiarsi. Per preparare “Tancredi” ho studiato diversi manuali di prassi esecutiva dell’epoca classica e romantica, spaziando poi anche verso letture come il fondamentale libro “Divagazioni rossiniane” di Alberto Zedda e i saggi critici di Philip Gossett sul Rossini serio».

Tu sei di Torino ma hai vissuto e studiato a Londra. Sembrerà banale, ma visto che sono un fervente sostenitore dell’esperienza estera che ormai ogni giovane italiano dovrebbe fare, ti chiedo com’è stata la tua vita londinese e se la consiglieresti ad un altro giovane.

«Gli anni che ho passato a Londra (studiando prima alla Guildhall School of Music and Drama e poi al King’s College) sono stati fondamentali per la mia crescita sia di artista che di essere umano. Secondo me non esiste posto al mondo più stimolante di Londra per la vita musicale, teatrale e culturale. Ho avuto la fortuna di fare tanti incontri importanti che mi hanno dato l’opportunità di crescere e di capire che fare il direttore d’orchestra  vuol dire vivere a tutto tondo quello che accade intorno a noi, imparando a guardare oltre la pagina di musica davanti al proprio naso.

Al contrario di quanto insegnano certi professori di conservatorio in Italia, la consapevolezza di ciò che sta dietro e attorno alla musica, in termini di storia, estetica, letteratura e formazione a 360 gradi fa la vera differenza tra un artista e un semplice esecutore musicale».

Era la prima volta che venivi a Pavia o la conoscevi già? Come la trovi o come l’hai trovata?

«In effetti è la prima volta che vengo a Pavia; devo dire di avere subito amato la dimensione raccolta ed elegante del centro storico e il fascino delle numerose pasticcerie (essendo torinese sono molto esigente in fatto di dolci!), nonché la bellezza davvero unica del Teatro Fraschini. Ecco, quando dirigo in città come Pavia, Como e le altre tappe del Circuito Lirico Lombardo, sento che nel DNA di questi centri italiani è ancora presente un senso di appartenenza all’opera e al teatro che è raro trovare in altre parti del mondo. Ed è anche grazie a questo che un artista con la valigia sempre pronta come me si riappacifica con le sue origini italiane e col fare opera in Italia, nonostante il momento sicuramente non facile per le istituzioni».

In conclusione, ti chiedo di regalare ai nostri giovani lettori alcuni consigli: come imparare ad apprezzare l’opera lirica, un libro che andrebbe assolutamente letto, un brano musicale che andrebbe assolutamente ascoltato e uno spettacolo che andrebbe assolutamente visto.

«Credo che per apprezzare l’opera lirica un giovane ascoltatore dovrebbe pensare di andare semplicemente a vedere una forma di spettacolo curioso, dove si canta invece di parlare, cercando di lasciarsi guidare da qualche elemento che lo possa far identificare coi personaggi. Del resto il successo di musical-opera quali “Notre-Dame de Paris”, “The Phantom of the Opera” o “Les Miserables” dimostrano che c’è ancora in noi il bisogno di vedere storie raccontate attraverso la metafora del canto. A Jesi, dove ho appena diretto “L’Arlesiana” di Cilèa, c’era un pubblico giovane e rapito da questo cinema in carne ed ossa che si chiama opera e che si dipanava di fronte a loro.

Per capire cosa vuol dire raccontare una storia in modo operistico, mi piace accomiatarmi da te con due consigli: da un lato una lettura, “The Hoursdi Michael Cunningham, e dall’altro un musical, “Rent” di Larson, basato sulla storia de “La Bohème” di Puccini. E una volta visto il musical, guardate l’originale operistico in DVD (nella versione classica di Zeffirelli o nella regia di Baz Luhrman, il regista di Moulin Rouge). Si tratta di opere e letture che ruotano attorno al centro nevralgico dell’opera lirica: raccontare una storia, e partire da questo racconto per scavare nei tanti abissi che definiscono chi siamo e cosa vogliamo dalla nostra vita».

jacopo brusa

ulteriori informazioni: francescocilluffo.com

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