Alberto Onetti è professore di Management ed imprenditorialità all’Università dell’Insubria (oltre ad insegnare alla LUISS di Roma e a San Francisco). Dal 2005 fa il “commuter” tra Italia e Silicon Valley, dove ha contribuito a fondare e fare crescere Funambol (società californiana leader al mondo nel campo delle mobile personal clouds) ed è stato nominato Chairman di Mind the Bridge Foundation, la fondazione californiana che supporta lo sviluppo dell’imprenditorialità in Italia. Onetti ha una vasta esperienza nel campo della formazione e consulenza per imprese e banche sui temi della pianificazione strategica e della finanza. Inoltre siede nel consiglio di amministrazione e nei collegi sindacali di diverse società ed enti. Ha pubblicato numerosi articoli e libri in tema di gestione, internazionalizzazione e innovazione d’impresa. Tra questi si ricorda il volume “Strategia d’Impresa”, edito da Il Sole 24 ORE e giunto alla quarta edizione, e il volume “Business Model for Biotech” in uscita con Routledge negli Stati Uniti.
Lo scorso 11 novembre, presso il Polo Tecnologico di Pavia, si è svolto l’evento #farestartup. Non sono un tecnico della materia, ma ho partecipato all’incontro con curiosità e dopo essermi documentato sull’argomento, pur essendo un profano, ho avuto l’occasione di intervistare Alberto Onetti, uno dei massimi esperti a livello internazionale sull’argomento.
Onetti mi ha regalato degli spunti di riflessione – a tratti apparentemente semplici e intuitivi – molto importanti. Ad esempio:
- oggi tutti parlano di startup senza sottolineare che il tasso di fallimento di tali aziende è molto alto;
- fare startup è un lavoro che si impara facendolo e sbagliando;
- bisogna sempre diffidare da chi racconta esperienze esclusivamente positive;
- il fallimento è strettamente collegato all’apprendimento, è un tabù tutto italiano, ma i dati dimostrano che
- le startup di successo spesso non nascono dalla prima esperienza, ma hanno alle spalle altre startup che hanno fallito;
- serve più cultura sull’argomento;
- bisogna costruire un ponte tra il tessuto di imprese italiane e le nuove startup per aumentare le possibilità di exit;
- non bisogna disperdere i capitali, pertanto è importate educare gli investitori a riconoscere le startup con maggiori potenziali.
Onetti era fresco dell’edizione 2013 del “Mind the Bridge Venture Camp”, evento che si è svolto lo scorso 8 e 9 novembre presso la sede del Corriere della Sera, e mi ha raccontato che i temi caldi nel settore riguardano il crowdfunding, le acquisizioni e l’angel investing. “Mind the Bridge sta puntando tantissimo sull’educazione degli investitori, perché, visto il forte aumento del numero di startup, bisogna cercare di non disperdere gli investimenti e bisogna essere in grado di riconoscere i progetti vincenti. Infatti, i numeri dicono che circa il 70% delle startup, negli Stati Uniti, è destinato a perdersi nella valle della morte. Questo vuol dire che per la maggior parte delle startup non esiste una exit e un bravo venture capital deve capire subito se il cavallo su cui vuole puntare può essere vincente.” Onetti crede che sia importante fare cultura in questo settore: “è quello che ha sempre fatto Mind the Bridge e oggi è giusto che l’attenzione si focalizzi sugli investimenti, settore che vede l’esplosione del fenomeno mondiale del crowdfunding, e che riveste un’importanza fondamentale nello sviluppo di un’azienda che voglia definirsi startup.”
Onetti e Marco Marinucci (Founder Mind the Bridge) hanno quindi lanciato la prima Angel Investing School per raggiungere tre obiettivi: (i) creare un ponte tra le imprese tradizionali e il mondo delle startup, (ii) allargare le finestre di exit, mettendo in contatto le startup con le imprese che potrebbero essere in grado di acquistarle e (iii) cercare funding all’estero.
Ho chiesto a Onetti un commento sui dati presentati da Unioncamere, relativi dell’imprenditoria italiana nei primi nove mesi del 2013 e dai quali emerge che delle quasi 300mila imprese nate fino al 30 settembre, il 34% hanno alla guida uno o più giovani under 35. Da questi dati emerge anche un’alta mortalità di tali imprese, infatti il saldo tra aperture e chiusure (+13 mila unità) è il più basso degli ultimi dieci anni.
La sensazione di Onetti è che si tratti più di “parcheggi per precari che di startup”, come già aveva scritto poche settimane fa, in un articolo sul Corriere della Sera. A supporto della sua ipotesi mi racconta i risultati, di una cluster analysis condotta sui dati raccolti durante la “Mind the Bridge Seed Quest 2012” su un campione composto da 108 startup e 254 imprenditori. Mi spiega che, da tale analisi, emergono tre tipi di startup:
- di prima generazione (20% del totale)
- nate dalla crisi (50% del totale)
- scalabili (30% del totale)
Startup di prima generazione – Sono costituite da giovani imprenditori con un background prevalentemente tecnico e senza esperienza lavorativa pregressa. Riescono a raccogliere fondi prevalentemente tra i fondatori e il capitale medio raccolto è modesto (1000-10000 euro) nel 38% dei casi. Hanno deboli conoscenze di tipo manageriale, assenza di esperienze lavorative pregresse e una debole capacità di attrarre fonti di finanziamento più strutturate. Queste aziende nell’immediato non sono pronte a fare il grande salto, la cosa positiva è che si sta formando una nuova generazione di imprenditori.
Startup nate dalla crisi – Sono formate prevalentemente da persone in uscita da posizioni lavorative convenzionali o senza un lavoro. Hanno un elevato livello di esperienza lavorativa che deriva da lunghi periodi di lavoro dipendente e una scarsa attitudine imprenditoriale. Fra questo tipo di startup si osservano elevati tassi di mortalità e limitate capacità di raccogliere il capitale (solo il 44% ha ricevuto finanziamenti da fonti esterne). In questo periodo di crisi molte persone che hanno perso il lavoro, o sono insoddisfatte della propria posizione lavorativa, si sono buttate nel mondo delle startup.
Startup scalabili – Sono caratterizzate da un elevato livello di istruzione. Nel 13% dei casi il fondatore di queste startup ha un dottorato di ricerca e più di uno su dieci ha un MBA. Il background manageriale è elevato ed è presente anche una solida esperienza lavorativa pregressa. Nel 31% dei casi il co-founder di queste aziende ha svolto almeno un lavoro all’estero e il 25% di loro ha conseguito un titolo di studio in un’università straniera. Generalmente queste startup hanno più co-founder, con background educativi eterogenei e con un buon bilanciamento tra competenze tecniche e manageriali. Proprio questo equilibrio sembra essere l’ingrediente chiave per lo sviluppo dell’idea di business. Inoltre le startup “scalabili” hanno un’elevata capacità di raccolta di capitale da fonti esterne. Il 30% ha ricevuto finanziamenti per più di 200k euro e il 50% ha raccolto più di 100k euro da fonti strutturate come seed fund, fondazioni, acceleratori e venture capitalist. Queste startup hanno la possibilità reale di diventare grandi, anche se comunque i tassi di successo premieranno solo poche realtà.
Questi numeri parlano chiaro: il 50% del totale delle startup sembra essere “nato dalla crisi”, come ha sottolineato Onetti, che però vede anche un aspetto positivo in questi dati: “Si sta formando una nuova generazione di imprenditori, che anche attraverso il fallimento, avrà occasione di crescere e rinnovare il tessuto imprenditoriale italiano.”
Ho chiesto a Onetti cosa ne pensa della grande diffusione di Poli tecnologici e spazi di coworking nel territorio italiano – pensate che a Milano sono oltre 30 gli spazi di coworking esistenti. “È sostanzialmente una cosa positiva, ad esempio quando siamo partiti con Funambul se avessimo potuto sfruttare questi spazi l’avremmo fatto sicuramente nella fase iniziale e questo ci avrebbe facilitato non poco le cose, l’importante è che, soprattutto su territori più ristretti, non si creino divisioni che portano allo sviluppo di realtà troppo piccole che si fanno concorrenza inutilmente.”
Lo scorso 11 novembre, a Pavia, ho visto un Alberto Onetti molto concreto, il suo intervento è stato equilibrato, puntuale e realistico. Dobbiamo fare tesoro di questi consigli, dobbiamo sapere prima di fare, dobbiamo sempre essere irrequieti. Felici e irrequieti è la chiave del successo.
fabio lunghi
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