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Da Dolly al trattamento delle patologie è il titolo della lecture che Ian Wilmut, (MRC Centro di Medicina Rigenerativa, Università di Edimburgo) lo scienziato che creò il primo clone di un mammifero, la famosa pecora Dolly, terrà il 31 marzo alle ore 17 nell’ Aula Magna dell’Università di Pavia, per discutere le prospettive aperte dalla clonazione nel campo delle terapie cellulari per il trattamento di patologie umane.
I nuovi metodi di produzione di cellule staminali offrono straordinarie opportunità per lo studio dei meccanismi molecolari dell’ereditarietà delle malattie genetiche. Queste tecniche rendono possibile la produzione di cellule da pazienti identiche a quelle possedute alla nascita e, nel caso di pazienti con malattie ereditarie, il confronto di queste cellule e quelle di donatori sani consente di definire i cambiamenti responsabili della malattia e la messa punto di tests per identificare nuovi farmaci per la malattia stessa. In linea di principio, queste ricerche sono applicabili a molte patologie ereditarie, tra cui le malattie del motoneurone, la schizofrenia, alcune forme di cancro e l’insufficienza cardiaca improvvisa. La lecture illustrerà non solo il potenziale di queste nuove tecniche, ma anche il fatto che la loro ideazione abbia tratto origine da ricerche in un campo apparentemente molto distante: la clonazione di una pecora.
Nato nel 1944, Ian Wilmut si definisce un modesto embriologo inglese che si prefiggeva l’obiettivo di aumentare la produttività degli animali da allevamento. Nel febbraio 1997 però Wilmut destò incredulità e stupore nella comunità scientifica quando annunciò di aver clonato con successo la pecora Dolly dal DNA di una cellula adulta e venendo a trovarsi improvvisamente al centro di una enorme controversia etica sulla clonazione stessa.
Ian Wilmut nacque a Hampton Lucey, vicino a Warwick (Inghilterra) il 7 luglio del 1944. Suo padre, David Wilmut, era un insegnante di matematica. Wilmut si descriveva come uno studente sostanzialmente nella media. Decise di studiare Agraria all’Università di Nottingham perché gli sarebbe piaciuto lavorare all’aperto ma scoprì di non avere l’attitudine per gli aspetti commerciali e manageriali dell’allevamento, e si appassionò invece alla ricerca.
Al Darwin College dell’Università di Cambridge, Wilmut conobbe il ricercatore Chris Porge, il quale aveva scoperto nel 1949, come congelare le cellule. Il padre, affetto da un grave forma di diabete, aveva perso la vista vivendo da cieco per gli ultimi trent’anni della sua vita e la malattia del padre probabilmente è stata una delle cause che indussero Wilmut a maturare l’interesse per la ricerca. Wilmut intuì che l’ingegneria genetica un giorno avrebbe potuto aiutare persone come suo padre. Conobbe G. Eric Lamming, un esperto di scienze riproduttive di fama mondiale e che divenne il suo ‘mentor’. Ottenne il dottorato nel 1973 a Cambridge con una tesi che riguardava il congelamento di sperma suino e di embrioni e, basandosi sui risultati delle sue ricerche, Wilmut riuscì a produrre il primo vitello nato da un embrione congelato, un Hereford-Friesian chiamato Frostie. Utilizzando questa tecnica, gli allevatori di bestiame incrementarono la qualità dei loro capi impiantando embrioni bovini da animali rinomate per la qualità della loro carne e del loro in animali meno pregiati.
Dopo il dottorato, Wilmut prese parte a un progetto di ricerca con l’Animal Breeding Research Station, un Istituto di ricerca scozzese finanziato sia dallo Stato che da privati. Durante un congresso scientifico in Irlanda, Wilmut ascoltò una conversazione su un esperimento effettuato sa un embriologo danese: Steen M. Willadsen dell’impresa texana Grenada Genetics. Costui aveva provato a usare una cellula embrionale già in avanzato stadio di sviluppo per clonare una pecora. Questa conversazione convinse Wilmut che clonare grandi animali da allevamento sarebbe stato possibile. Al ritorno in Scozia, applicò le sue conoscenze scientifiche ad un programma di ricerca sulla clonazione di grandi animali che perseguì senza dubbi e senza sosta nonostante la maggior parte dei biologi considerasse la clonazione di un mammifero pura fantascienza. Nel 1991 gli attivisti per i diritti degli animali vennero a conoscenza del progetto e incendiarono i suoi laboratori. Wilmut non si lasciò scoraggiare, anzi ottenne dei finanziamenti dalla PPL (Pharmaceutical Proteins Ltd Therapeutics), un’azienda farmaceutica, e riprese i suoi esperimenti. Solo quattro scienziati conoscevano i dettagli del progetto.
Nel gennaio del 1996, Wilmut iniziò la procedura di clonazione. Estrasse il DNA dalla ghiandola mammaria di una pecora Finn Dorset di sei anni, ne spense i geni attivi e la fuse con l’ovulo deprivato del suo DNA di una pecora Scottish Blackface. Con una scarica elettrica ottenne la fusione della cellula mammaria col suo DNA e dell’ovulo svuotato e in uno stato di quiescenza. Ripetè la procedura con 277 cellule mammarie e ovuli di pecora. Tra questi ovuli, solo 29 effettivamente crebbero e si divisero formando embrioni. Wilmut li trasferì tutti e 29 in madri adottive. Tredici rimasero incinte, ma solo una diede alla luce un agnello sano. Il 5 luglio del 1996, l’agnello nacque al Roslin Institute. Il test del DNA confermò che si trattava del clone della pecora di 6 anni. Wilmut la chiamò “Dolly” in onore di Dolly Parton, la procace cantante country. Aspettò sino al febbraio del 1997 prima di presentare al mondo la nuova nata, per assicurarsi che crescesse sana e che il brevetto della clonazione fosse stato registrato. Spiegò nel lavoro che il DNA delle due cellule di partenza doveva essere sincronizzato esattamente allo stesso stadio del ciclo cellulare per creare un animale vivo.
Nei tempi immediatamente successivi all’annuncio di Wilmut, nessun altro scienziato fu in grado di replicare l’esperimento di creando una pecora a partire dalla cellula adulta di un’altra pecora ma la comunità scientifica ritenne che fosse solo questione di tempo prima che l’esperimento venisse replicat e ulteriori test del DNA confermarono che Dolly era una copia esatta della pecora materna. Quando Andrew Collier, un giornalista del quotidiano Scotsman conobbe Dolly, si aspettava poco più di una curiosità da laboratorio. Al contrario, scoprì un animale delizioso, vivace e dalla personalità esuberante. Abituata fin dalla nascita alle cure degli uomini, Dolly si liberò, si alzò e spinse la sua testa contro la mano di Collier, come a chiedere di essere coccolata. Dolly ha prodotto quattro discendenti, nessuno dei quali ha mostrato anomalie nello sviluppo.
Dopo la nascita di Dolly, Wilmut continuò gli esperimenti di clonazione creando Molly e Polly, due pecore con un valore commerciale reale. Erano state entrambe clonate inserendo nel loro materiale genetico un gene umano che permetteva la produzione nel latte del fattore IX della coagulazione del sangue che puo’ essere estratto dal latte e utilizzato per trattare l’emofilia. In seguito, si poterono ottenere interi greggi di pecore in grado di produrre latte contenente proteine utili per curare anche altre patologie, una sorta di industria farmaceutica vivente. Wilmut sperava di applicare la tecnologia ai maiali per produrre organi adattabili all’uomo e trapiantabili, perché diverse migliaia di persone muoiono ogni anno perché non possono ricevere un trapianto. Alla stessa stregua Wilmut era interessato a creare animali in cui il gene che rende il bestiame suscettibile alla malattia della mucca pazza venisse modificato per evitare un nuovo disastro nell’ industria dell’ allevamento. Le possibilità da cui trarre vantaggio nel campo della clonazione sono innumerevoli.
Wilmut non avrebbe mai immaginato la bufera che il suo lavoro avrebbe scatenato. Quando annunciò la clonazione riuscita, disse a Youssef M. Ibrahim, in un’intervista per il New York Times: “La tecnologia di cui disponiamo ci permette di modificare gli organi animali, così da renderli meno pericolosi per il sistema immunitario dell’uomo”. Nel frattempo, il resto del mondo sospettava che potendo clonare pecore, la clonazione di esseri umani sarebbe seguita di lì a poco. Secondo Gina Kolata del New York Times, Wilmut non ebbe mai l’intenzione di clonare essere umani, considerandola peraltro una possibilità eticamente inaccettabile. Nel 1997, durante un’udienza del comitato della salute pubblica e della sicurezza del Senato degli Stati Uniti, tenutasi per discutere le implicazioni etiche e scientifiche del suo lavoro, Wilmut disse: “So esattamente cos’è che preoccupa la gente. Comprendo il motivo per cui improvvisamente il mondo è alla mia porta. Ma questo è il mio lavoro. Io mi sono sempre identificato in quello che faccio, e non si tratta di creare copie di esseri umani. Non sono ossessionato da quello che faccio, se è questo che volete sapere. Dormo molto bene la notte.”. In un’ intervista con Andrew Ross, su Salon, Wilmut affermò: ”Una cosa che vorrei dire è che la Storia dimostra che le persone fanno pessime previsioni sull’uso futuro delle tecnologie. Nella clonazione ci sono potenziali benefici reali, ed è importante che le preoccupazioni volte a impedire usi impropri non vadano anche a inficiare le implementazioni benefiche che questa ricerca può apportare”.
Dal 1999, Wilmut si battè per la modifica dello Human Fertilisation and Embryology Act del Regno Unito, varato nel 1990, per permettere l’uso di un surplus di ovuli destinati ai trattamenti di fecondazione assistita per svilupparli per quattordici giorni. La modifica dell’Act consente che cellule staminali, o cellule madri con il potere di crescere e trasformarsi in qualunque cellula del corpo, possano essere ottenere prima della distruzione dell’embrione e utilizzate nello sviluppo di terapie per tessuti e organi malati o danneggiati. Malattie come il Parkinson e l’Alzheimer possono così venire studiate e, forse, interrotte.
Nonostante Wilmut non sia religioso, fa parte del comitato della Church of Scotland che esamina periodicamente le questioni etiche sollevate dai progressi scientifici e tecnologici. Il suo intento è di dissipare le critiche in modo tale da portare avanti il lavoro di ricerca. Quando si presenta ai seminari pubblici, spesso si scontra con proteste ma, ad ogni evento, Wilmut non si stanca di sottolineare i potenziali benefici terapeutici delle tecniche di clonazione.