Rocco Cerchiara e Andrea Cardia, Foibe, 2009, tecnica mista su multistrato, cm 300×150. Una delle tre tele monumentali realizzate per la mostra dell’Associazione Nazionale Dalmata.
La memoria non va gettata nel buio.
Il dramma delle foibe, per anni dimenticato, va ricordato dai giovani che oggi vivono in quelle terre per non ricadere nello stesso dramma.
Ci sono molte storie, in questo paese, che dormono sotto una spessa coltre di polvere. Abbandonate nel dimenticatoio dalla maggior parte delle persone, scacciandone il ricordo con un veloce «Ma sì, lo sanno tutti», però alla fine nessuno sa bene di cosa si sta parlando. E tutto cade di nuovo in silenzio, in nulla. Un abisso nero a cui nessuno dà importanza, perché ormai sono cose troppo lontane da noi. O almeno è così che dicono.
Di solito, difronte a molte di queste storie, ci sono due tipi di persone. I titubanti, che storcono un po’ il naso quando sentono quei racconti, quelle testimonianze e sono sempre pronti a ribattere «sì, però…». Però niente, rispondono coloro che ci credono, persone indignate dalla crudeltà che queste storie fanno emergere dalle pieghe del tempo. E l’Italia ne conserva parecchie.
E c’è n’è una che riguarda molto da vicino chi, come me, vive in Friuli Venezia Giulia. Non l’unica ma sicuramente una delle più tristi. Soprattutto perché, su di essa, molti (troppi) hanno deciso di chiudere entrambi gli occhi, girando la schiena alla realtà: le foibe.
Per anni, infatti, motivi d’interesse politico hanno strumentalizzato questa drammatica vicenda, dove da una parte il partito comunista negava le atrocità che avvenivano sul nostro Carso, mentre i gruppi neo-fascisti le usavano come “contropartita” per bilanciare l’orribile scempio dei campi di concentramento nella Seconda guerra mondiale. Come se dire «quei brutti e sporchi slavi comunisti erano peggio di Hitler, in fondo» servisse come “deterrente” per la coscienza. Ma il sangue, da un parte e dall’altra, non si smacchia così facilmente.
La realtà è che migliaia di persone furono rastrellate dalle loro case, in questa terra di confine abitata da popoli diversissimi tra loro e gettati barbaricamente nelle profonde cavità del Carso, uccisi prima o addirittura lasciati marcire lì, in preda agli stenti. La loro colpa: essere italiani o non appoggiare semplicemente il partito comunista jugoslavo.
Oggi, molti italiani, ma soprattutto friulani, isontini, triestini…, conoscono solo marginalmente quel massacro che le truppe del dittatore Tito compirono nella Venezia Giulia, nell’Istria e nella Dalmazia, sullo sfondo di una Trieste divisa in due tra comunisti e americani e liberata solo anni dopo, e contro i loro stessi connazionali che si opponevano alla dittatura.
Per questo devono essere i giovani, italiani ma soprattutto friulani, isontini, triestini…, a tener vivo il ricordo di quei tragici momenti. Non per puntare il dito contro gli “slavi”, né per dire che sono migliori di loro. Sono discorsi che non significano né portano a niente.
La memoria va mantenuta per non ricadere in sbagli simili, come purtroppo è successo vent’anni fa, sempre in Jugoslavia. Bisogna conoscere il passato dei nostri nonni, per poter comprendere il presente e disegnare un nuovo futuro, senza macchiarlo di nuovo di sangue innocente.
Se non loro, chi?
timothy dissegna