Se c’è una parola al mondo che tutti noi pensavamo di aver dimenticato per sempre – relegandola soltanto a un passato lontano – quella, sicuramente, è schiavitù. Invece, diversamente da quello che si può pensare, questa parola appartiene ancora alla nostra epoca, molto più di quanto si possa immaginare. Perché oggi non si è schiavi soltanto delle passioni, della tecnologia, dei vizi, ma lo si è anche fisicamente.
In pochi ne parlano, ma la schiavitù è il terzo traffico più fruttuoso al mondo secondo l’ONU, dietro soltanto a quello di droga e armi. La tratta degli esseri umani, un fenomeno sempre più dilagante, che non conosce ostacoli di alcun tipo: dal Brasile alla Birmania, passando per la Romania e Nigeria, la compravendita di persone, come se fossero oggetti, è ogni giorno sempre più terrificante. I risultati si vedono sui marciapiedi delle nostre città di notte, con vestiti affilati e sguardi giovanissimi, privi ormai di speranze nel futuro. Ma anche nei cantieri dei monumentali centri commerciali e negli hotel di Dubai e simili, con centinaia di disgraziati che “lavorano” (se si può definire così il trattamento che gli viene riservato) per creare le meraviglie che vediamo in televisione.
Anti-Slavery International ha stimato che nel mondo ci sono 27 milioni di schiavi, di cui 2,5 sono vittime di tratta, secondo la Presidenza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. A pagarne le conseguenze sono sia persone adulte che bambini: quest’ultimi, infatti, vengono sfruttati per lavorare non solo nei paesi in via di sviluppo, ma perfino in quelli già pienamente industrializzati, come fanno notare i rapporti del 2005 e 2007 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL).
I settori in cui questa gente “opera” sono molteplici: i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (UNODC) riferiscono infatti che, in Europa e Asia centrale, le vittime accertate di questo crimine sono nel 62% dei casi oggetto di sfruttamento sessuale, nel 31% di lavoro forzato e nel 7% di altre forme di sfruttamento, come l’accattonaggio o la servitù domestica. In Africa e Medio Oriente, invece, il lavoro forzato sale al 49% contro il 36% per la prostituzione.
Le vittime, sempre secondo i dati UNODC, sono in prevalenza donne (59%), ragazze (17%), uomini (14%) e ragazzi (10%). L’OIL, inoltre, parla di 21 milioni di persone costrette a lavorare in forma di costrizione e più di metà sono donne. Un business, questo, che frutta un profitto pari a 150 miliardi di dollari annui: tutti soldi che finiscono nelle tasche delle mafie internazionali. Per lasciare meno delle briciole a quei poveri disgraziati, condannati a una precoce fine se non succede un miracolo.
Cosa che, a volte, accade veramente. In Italia, su 30.000 vittime di sfruttamento stimate da Caritas Italia, le associazioni che si occupano di aiutare queste persone sono venute in contatto con 60.000 potenziali vittime in 11 anni (2000-2011) e, di queste, oltre in 20.000 hanno avuto accesso ai programmi di lunga assistenza nello stesso periodo. Cifre che fanno sperare ma, allo stesso tempo, gridare per la rabbia: le atrocità della schiavitù sono davanti agli occhi di tutti e i governi sono impotenti nella stragrande maggioranza delle volte. Recentemente c’è stato un meeting tra Italia e Serbia – paese-base per molti trafficanti – per discutere anche di questa piaga sociale: l’Europa deve vincerla a tutti i costi, altrimenti non ha veramente alcun senso che esista.
timothy dissegna