Il primo a definire il mondo odierno come un “villaggio globale” fu il sociologo canadese Marshall McLuhan, nel suo saggio intitolato “The Global Village: Transformation in World Life and Media in 21th Century” del 1989, scritto con R. Bruce. Alla base, lo si capisce subito, c’è il tema della globalizzazione e come questa abbia capovolto, in ogni sua forma, la vita dell’uomo. La globalizzazione è argomento che scervella da decenni studiosi di ogni dove e disciplina e quella di McLuhan è solo una delle tante interpretazioni – oltretutto incentrata principalmente sotto l’aspetto della comunicazione – del fenomeno. Una definizione unica è quasi impossibile da dare: vi concordano praticamente tutti i manuali del settore dato che vengono toccati così tanti temi, spesso molto distanti tra loro, che ci si perde. Sicuramente di grande rilevanza è l’aspetto economico.
Da Marx in poi, la storia è stata vista con la lente d’ingrandimento dei fatti economici, andando a ricercare cause ed effetti nell’ambito dei mercati o ipotizzando che dietro ci siano motivi materiali (il filosofo tedesco fondò, appunto, il Materialismo storico): quella guerra è scoppiata per il petrolio, l’Occidente interviene per difendere gli scambi commerciali, eccetera. Può sembrare una chiave di lettura perfetta e attualissima, con i ripetuti ammonimenti da parte degli enti monetari internazionali ai singoli Paesi in deficit o il potere degli Stati petroliferi nell’economia globale, ma alla lunga questa interpretazione non può risolvere tutte le domande.
Perché il quesito centrale, in questi primi anni del XXI secolo, è: la globalizzazione è una cosa buona o no? Inutile dire che in tanti la risposta se la possono dare senza pensarci troppo, andando con la mente a immagini come i bambini che cuciono palloni in Vietnam o gli operai polacchi che montano le auto europee pagati meno di metà dei colleghi occidentali. Perché il lavoro sarà anche arrivato nei Paesi che, fino all’ ’89, erano dietro al Muro di Berlino ma bisogna capire l’altissimo prezzo che si paga tutt’ora spesso troppo facilmente dimenticato dietro un’etichetta di jeans o di una t-shirt.
Ma discutere di sfruttamento del lavoro, mascherato da liberismo economico senza freni, senza tenere conto degli eventi sociali, culturali e politici presenti non solo in quella zona del mondo ma a livello internazionale non ha senso. Ed è questa fitta rete di collegamenti a complicare la soluzione alla domanda che avevamo formulato, poiché senza la globalizzazione (e quindi i relativi abusi in giro per il pianeta) non esisterebbe quella cosa enorme che chiamiamo internet, e quindi nemmeno questo stesso sito. Opporsi al progresso, ormai etichettato esclusivamente con il fenomeno protagonista di questo articolo, è inutile e non vinceranno nemmeno posizioni “di classe” tanto care a Marx. Si può solo sfruttarlo per cambiare l’ordine, spesso folle, delle cose e decidere che scelta compiere per il domani.
timothy dissegna