Foto tratta da arabpress.eu
“Che soluzioni proporresti per la questione del Mediterraneo?” La domanda arriva a bruciapelo, in quello che dovrebbe essere un contesto cupo e ansioso, o meglio così mi sono sempre immaginato il mio esame di Maturità. In realtà è da circa un quarto d’ora che discuto con alcuni professori della commissione di ciò che sta accadendo in questi ultimi anni tra il Nord Africa e le coste europee, partendo addirittura dal “Rosso Malpelo” di Giovanni Verga, e mi sento fin troppo tranquillo.
Mi ero preparato su praticamente tutto: D’Annunzio e il superuomo dell’Alcyone, Pirandello e la crisi dell’uomo a inizio Novecento, Italo Svevo e la psicanalisi… Ma il quesito che adesso mi veniva proposto era completamente fuori da ogni programma scolastico, un argomento di cui tante persone conoscono solo grazie al vociare politico o a alle immagini frettolose che scorrono sui giornali e televisione. E mi chiedono quali soluzioni potrei proporre…
Nemmeno chi dovrebbe trovare soluzioni concrete, come quell’Europa che tanti additano come nemica e tutti supplicano d’intervenire, si muove. Il barcone salpa dal porto libico, si avvicina alle coste italiane, il mare lo inghiotte e ancora una volta un Paese intero piange l’ennesimo lutto: un tragico schema che si ripete ormai sempre più spesso, in un circolo continuo dove “loro” ci invadono, “noi” dobbiamo mantenerli e l’umanità va a farsi benedire. All’inferno. E subito inizia il coro mediatico: il nostro governo dice che l’Unione Europea deve intervenire, questa risponde che non ci lascerà soli, e poi la Francia chiude le frontiere.
Quel sogno grande e per molti utopico già allora di un Vecchio Continente unito, nato dalle menti di importanti figure politiche del secondo dopoguerra, tra cui Acilde De Gasperi, adesso è sempre più alla deriva. Nelle stesse acque, peraltro, dove naufragano i disperati eritrei, somali, afghani, siriani, e su cui si bagna quella Grecia che tanti vorrebbero allontanare dall’Europa. Come se la Storia potesse essere dettata dall’economia, cancellando per esigenze di bilancio millenni di cultura e la fonte stessa di ciò che siamo oggi.
Paradossalmente, il nome stesso “Europa” deriva dal greco “EYSOS”, poi convertito al latino “ÈURUS”, che oltre a indicare il vento omonimo che giunge da Oriente, chiamato anche Levante, nasconde un significato che ben si adatta al presente: bruciare. Un po’ come stanno facendo le istituzioni nazionali e continentali, economiche e politiche, alimentate dal combustibile del terrore di un default finanziario, dagli attacchi a sorpresa del terrorismo jihadista, dalla tirannia delle banche: argomenti che fanno da sé la campagna elettorale dei partiti populisti, che nella loro oscenità di linguaggio forse sono gli unici ad averci capito qualcosa. Ma vanno nella direzione sbagliata.
Non è certo chiudendo le frontiere che si combatte l’emigrazione clandestina, a meno che non si voglia equiparare i mercanti di morte con i profughi che fuggono dai massacri; né cacciando chi non può pagare i propri debiti, anche se sono anni che vengono concesse deroghe, perché in fondo se si è arrivato a questo è perché tanti hanno speculato su un Paese che non poteva permettersi la moneta unica, compresi quelli che adesso pretendono che Tsipras dica sì all’austerity per aggiustare le cose.
La mia faccia pensierosa desiste la commissione d’esame a continuare con questa domanda, capiscono anche loro che una soluzione è abbastanza difficile da formulare sui banchi di scuola. Per cui si prosegue con Marx, Dickens, la teoria della tettonica a placche… Sembra tutto così lontano e, al tempo stesso, distante dal Mediterraneo: in fondo, oggi chi arriva con i barconi è una classe sottoproletaria sfruttata, come scriveva l’ideatore del comunismo nel “Manifesto”, e queste tratte trascinano bambini ridotti a schiavi come erano protagonisti dello scrittore vittoriano. E il tutto mentre il Continente si frammenta in vere e proprie “placche” di consenso, tra chi è per l’accoglienza e chi per chiudere le frontiere.
L’esame finisce, le tragedie no. E rimane un rammarico addosso, che si fa lentamente spazio dopo la gioia iniziale per aver terminato il liceo: sarebbe cambiato qualcosa in noi, ragazzi italiani ed europei, se questi discorsi fossero stati fatti già a lezione, durante l’anno? Ovviamente la scuola non può fare tutto, sta anche al singolo informarsi e capire dove vive, ma sarebbe già stato un passo in avanti. Sperando che nella “Buona Scuola” si nasconda veramente qualcosa di buono per il futuro.
timothy dissegna
Da un po’ mi chiedo questi ragazzi e ragazze, non più bambini e bambine, giovani uomini e donne che saranno i protagonisti di domani, come mai se ne stanno lì, seduti immobili e impassibili, in passiva silenziosa attesa qualcosa che chissá chi e chissá come dovrebbe fornire loro?
Se ne stanno seduti dietro i loro banchi, comodi e silenziosi sulle loro seggiole, circondati dal caos dei loro libri più o meno sfruttati, quaderni raffazzonati, materiali che qualcuno ha fornito loro e loro ritengono dovuto per diritto divino, e stanno lì, in perenne attesa di essere nutriti dall’alto, come passerotti implumi in attesa del boccone che li nutrirà e li renderà forti e capaci di volare… Ma quando capiranno che le cose non stanno così?
La ‘buona scuola’ (e quanto mi rattrista questa ‘etichetta’) chi dovrebbe farla?
Io so che la Scuola la facciamo noi, insegnanti con la passione per il nostro lavoro, e soprattutto studenti e studentesse con la passione per il loro lavoro: studiare – che è ascolto, curiositá, ricerca, azione, e anche re-azione…
Quando ero studentessa, ero perennemente alla ricerca di qualcosa, arrabbiata e pronta alla discussione e alla battaglia se non mi veniva dato quello che io ritenevo importante in termini di contenuto e stimoli…
Ma forse quei tempi se ne sono andati: ora si sta comodamente e passivamente seduti dietro i banchi, in annoiato silenzio, forse intimoriti da un ‘sistema’ che non é ‘a nostra immagine e somiglianza’, e in cui non ci riconosciamo, sicuramente vigliaccamente pronti a criticarlo senza però essere disposti alla fatica immane e quotidiana, all’impegno duro, costante, metodico per tentare di renderlo migliore dall’interno!